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giovedì 25 apr
  • Purtroppamente (n.7)

    Ho seguito il dibattito sul matrimonio palermitano e, purtroppamente, ho pensato di dare il mio modesto contributo mettendo a vostra disposizione quanto ho scritto in proposito su “Homo Panormitanus”. Dunque questa volta campo di rendita. Col vostro permesso.
    Prendete un battesimo, moltiplicatelo per quattro e avrete un Matrimonio. La moltiplicazione vale per tutto: dalla fatica alle spese. Oggi si calcola che il costo medio di un matrimonio sia di diciottomila euro, poco meno di 36 milioni delle vecchie lire. Una bella “pinna di fegato” per le famiglie impegnate che sono tre: quella che si appresta a nascere, e quelle d’origine degli sposi.
    Il matrimonio è una di quelle occasioni in cui non si bada a spese. Naturalmente nella cifra media citata non rientrano quelle della casa, dei mobili né la dote. Quella fanno parte di una trattativa separata che risale addirittura al fidanzamento, “contratto” che, come abbiamo visto nel paragrafo precedente, può risalire a diversi anni prima ma che può essere perfezionato con l’avvicinarsi del Giorno Fatidico.
    Le spese dell’Avvenimento vero e proprio vengono invece calcolate nelle ultime settimane e appartengono ad una lunga lista all’interno della quale realizzare economie non è affatto facile.
    Il vestito di lei. Se consideriamo il rapporto costo-uso, l’abito nuziale sarà il più caro mai acquistato specialmente in considerazione del fatto che sarà indossato solo per qualche ora e poi mai più. Ma la scelta può durare giorni e giorni di estenuanti giri di mamma e figlia. Ne vedranno decine, da quelli che costano “solo” mille euro a quelli che arrivano a quattro, cinquemila. Poi ci saranno le “aggiustate” perché non tutte le nubende sono, ovviamente, come le modelle degli atelier. Così le sarte dei venditori sono chiamate a realizzare veri miracoli per infilare le rotondità delle sposine i vestiti disegnati per ragazze dal corpo della Schiffer.
    Il vestito di lui. Un’altra “perla”. Una volta, ai tempi dell’economia prudente, l’abito dello sposo era in genere un abito scuro che aveva una consistente prospettiva di essere adoperato ancora sia pure per altre occasioni importanti. Non era ovviamente il caso del “tight” dei matrimoni dei super benestanti. Ma per loro il risparmio non era un problema. Per tutti gli altri sì. Ma adesso anche lui compra un abito “mono-uso”: giacca lunga fino alle ginocchia, colletto alla Robespierre, camicia da “eran trecento, eran giovani e forti”, pantaloni “a sigaretta”, scarpe con la punta quadrata magari in pelle lucida, assegno a tre zeri (in euro).
    I regali. Le “liste di nozze” vengono messe a punto sapientemente ben conoscendo la disponibilità degli invitati. Ci sono “pezzi” molto impegnativi il cui costo può essere distribuito da “pooll” di invitati che si associano per l’occasione. C’è chi sceglie di farsi regalare roba pratica (dal frigorifero alla tv, dal tostapane al frullatore) e chi la butta sul “fino” e mette in lista improbabili e carissimi sopramobili servizi di piatti da casa reale. In ogni caso i regali ricevuti devono essere esposti in casa dei parenti della sposa dove, nell’ultima settimana da “signorina” si apre il rito del ricevimento. Il giorno del matrimonio non si può abbandonare la casa incustodita. Così di solito si noleggia un metronotte. Il problema dei regali e delle doti tra le famiglie importanti era così complesso e, diremmo oggi, articolato che quasi sempre si rendeva necessario un atto, una scrittura che regolasse il tutto davanti a un notaio. Documento minuzioso che citava gli oggetti più insignificanti. Come, per esempio, i “longhi a matula” che si può tradurre “lunghi a bambagia” ma che a Palermo è anche sinonimo di inutilmente alto e si affibbia a un tipo molto alto ma solo fisicamente e, per il resto, “cosa inutile”. E il vero “longu a matula” inutile lo era veramente. Si trattava di un lungo tubo foderato di raso all’interno e imbottito di bambagia. La sua funzione era davvero singolare. Durante la prima note di nozze veniva collocato nel talamo dei novelli sposi. Le abbondanti libagioni, lasciando prevedere complesse fasi digestive, prefiguravano una vivace attività, come dire?, meteoritica. Aria insomma. E non certo di montagna. Così la funzione del tubo era quella di ospitare tale aria avvicinandone l’imboccatura alla “zona di produzione” perché l’imbottitura di bambagia assorbisse le sgradevoli flatulenze. Va da sé che la legge sulla dinamica dei gas era strenua avversaria di ogni prospettiva di funzionamento del sistema. Oggetto dunque lungo, elegante, bello ma inutile.
    I fiori. Il summit successivo si svolge dal fioraio per il bouquet dove impazzano i fiori d’arancio. Ma la vera spesa è quella dell’addobbo della chiesa e della sala di trattenimenti. Una volta si provvedeva con semplici fiori. Adesso si noleggiano intere piantagioni di palme, kenzie, filiere di fiori rossi o gialli a preferenza della sposa. Per i banchetto si scelgono i centrotavola nei quali predomina, naturalmente, il bianco.
    L’auto. Ormai la scelta è ampia. Prima bastava una berlina scura, di solito messa a disposizione da un parente discretamente benestante. Adesso ci vuole, non la Mercedes, ma almeno la Bentley. Ma è gradita la Rolls Royce o una di quelle auto che sembrano uscite da un film di Greta Garbo, tipo Isotta Fraschini (rifatta) con trombe che in confronto quelle di Gerico sembrano pifferi da pecoraio. Poi ci sono gli “originali” che si presentano sulla Bianchina decappottabile, sulla Cinquecento o sulle riproduzioni della famosa “313” di Paperino. Per fortuna senza Qui, Quo, Qua. E’ incredibile la disponibilità dei noleggiatori “matrimoniali” palermitani.
    Sposarsi non basta. Nel senso che non basata celebrare il Sacramento o il rito civile. Che matrimonio sarebbe senza festa? Che matrimonio sarebbe se di questo momento un tempo unico, non si lasciasse traccia indelebile sotto forma di foto e filmati? Su questo è fiorita una rete di attività lucrose e ormai sofisticatissime. E sono proprio queste che incidono maggiormente sulla tasca dei novelli sposi.
    La memoria. Poiché di cotanto evento deve rimanere traccia indelebile, si prendono accordi con uno studio fotografico. Una volta era semplice ma adesso, così come raccontato per il Battesimo, tutto si complica sia per la disponibilità di nuovi ritrovati tecnologici, sia per l’aumentata considerazione di sé dei fotografi di cerimonie che si sono trasferiti dai solidi territori dell’artigianato, alle nuove terre dell’arte. Non solo foto dunque ma riprese digitali e quant’altro. Ciò comporta che il fotografo è regista di un teatro di posa itinerante che coinvolge gli sposi non solo durante la cerimonia o il trattenimento ma anche prima e dopo documentando sei o sette ore del grande giorno. Adesso c’è pure chi si rivolge ai fotografi informatici che, man mano che le varie fasi della giornata di nozze si avvicendano, aggiornano un sito internet appositamente creato per l’occasione e nel quale vengono riversate immagini, testi, interviste agli invitati, file audio, dichiarazioni degli sposi prima di essere tali e subito dopo esserlo diventati. Tutto resta nel sito consultabile on line. Al ritorno dal viaggio di nozze gli sposi non devono fare altro che inviare l’indirizzo del sito a tutti gli amici e parenti che, per un motivo o un altro, non hanno potuto prendere parte alla cerimonia. Chi invece resta legato al tradizionale seppure “Hi-tech”, diventa marionetta nelle mani dell’Artista. Comincia la sposa che viene già vestita di tutto punto viene trasferita in uno scenario consono tipo villa ottocentesca o in riva al mare. Ritratti solitari, malinconici perché lui non c’è. Lei allora non ride mai, ha lo sguardo sognante e guarda l’orizzonte oppure viene colta mentre la luce la dipinge in struggenti chiaroscuri. In chiesa uno fa le foto, un altro fa il “filmino” in digitale, vari apprendisti si affannano come datori di luci. I quadri sono quelli classici: l’arrivo di lui che si istalla sull’altare in attesa, lei che scende dalla macchina e, scortata dal padre, si avvia lungo la navata centrale, l’omelia, lo scambio degli anelli col bacio, la firma dei testimoni, l’uscita con la pioggia di riso. Tutti a mangiare? Macché: altre foto. Gli sposi vengono portati nei giardini della Palazzina Cinese, alla Villa Giulia o, ultimissima moda, tra eleganti rovine restaurate della chiesa della Madonna dello Spasimo. Nei periodi di punta c’è la coda e le coppie di sposi aspettano il loro turno. Finalmente tocca a loro e il regista comincia a condurli in giro per una faticosissima sezione fatta anche li di sguardi sognanti, ma di labbra sorridenti della serie “finalmente insieme”. A quel punto la sposa ha i piedi gonfi e sogna le tappine, lo sposo odia la camicia da Carbonaro. E’ sera e si va a mangiare.
    Il banchetto. C’è poco da aggiungere rispetto a quello che si organizza per il Battesimo solo che, anche in questo caso, vale la regola della moltiplicazione. I luoghi vengono scelti con cura e senza badare a spese. Prevalgono le ville nobiliari, e d’estate, i vecchi “bagli” dove organizzare banchetti “finto rustico”. Si mangia, si balla, impazzano gli stessi “complessini” che abbiamo incontrato nel corso dei battesimi. Verso la fine, prima del taglio della torta (spesso “ripiena” di colombe svolazzanti), è il momento delle foto di gruppo. Gli sposi fanno il giro dei tavoli e lasciano traccia, distribuiscono i confetti, baciano i bambini. Adesso è di moda che gli sposi trascorrano la prima notte di nozze non in viaggio ma in città. Spesso sono ospiti della struttura che organizza il banchetto quando essa è attrezzata alla bisogna. Diversamente la prima notte si trascorre in un albergo prestigioso. Mai, comunque, nella casa che gli sposi andranno ad abitare. In un modo o nell’altro, comunque, nessuna delle soluzioni si presta al rito dell’esposizione del “lenzuolo macchiato di sangue”, pubblica dimostrazione della verginità della sposina. E per fortuna. Questo rito è stato seppellito dal progresso e dall’emancipazione. E poi una sposina illibata, roba da altri tempi.
    Il viaggio di nozze. Mio padre e mia madre, alla fine degli Anni Quaranta, partirono in Littorina per Taormina. Quello fu il loro viaggio di nozze in un periodo in cui non c’era regola per la semplice ragione che il viaggio di nozze non si usava. Adesso è d’obbligo e le destinazioni sono “globali”. Non c’è confine, non c’è orizzonte: Maldive, Hawaii, Bali, Bangkok, Perth, Nairobi, Parigi. Oppure le crociere “chiavi in mano” che adesso vanno molto di moda. Per chi si accontenta di destinazioni medie, si imbarca la macchina e si parte con la nave alla volta del continente per proseguire poi verso destinazioni tradizionali come la Riviera o Venezia. E la partenza è tutta da vedere. Sotto quello che una volta si chiamava il “postale di Napoli” si raduna almeno la metà di quelli che hanno partecipato al banchetto. Ne portano ancora i segni nelle camice macchiate di unto e nel passo malfermo. Gli sposi non vedono l’ora di ritirarsi nella cabina per la prima notte (da sposati) insieme. Ma prima c’è un dovere da assolvere: quando la nave molla gli ormeggi, scatta il “lancio del gladiolo”. Una sorta di campionato mondiale di giavellotto in cui prevalgono spose robuste e di polso sciolto che riescono a beccare con precisione in fronte la “nannò” con un gladiolo da mezzo chilo. Loro partono e si amano, parenti e invitati tornano a casa per la cena (che i banchetto non ha scongiurato). E La “nannò”? Niente di grave: solo un leggero stato commotivo.

    Palermo, Purtroppamente
  • 13 commenti a “Purtroppamente (n.7)”

    1. “Pisciosissimo” come sempre…
      Rileggere queste scene di vita è fantastico!

    2. zia maria luisa hai bisogno di un ciripì? di un cambio veloce?

    3. Lista di battesimo!
      Ebbene si, leggete bene.
      Qui in Francia si usa fare manciata (repas) con gli amici a ristorante, e i genitori fanno una lista battesimo nei meganegozi.
      Tutto il mondo è paese.
      Nel vero senso della parola!!!
      😉
      Sergio

    4. Uhm… ‘mmatula=mattula=bambagia? A sentimento, non so perché, ma non m’appatta…

    5. minchia città ‘ri tasci… :D!

    6. i hai rooto col tuo perbenismo di viale strasburgo !!!

      viva i totucci !!!

    7. ahahahahahahahah! che siamo provinciali….ahahahahhahahah!!!!!

    8. a Pierluigi: in palermitano la bbambagia si chiama “mattola” e, oltre ad essere usata al pronto soccorso, c’è pure chi la infila dentro le scarpe per sembrare più alto. I “longhi a matula” io li ho visti e ti confermo che sono come li ho raccontati.
      ad Antonio: se parlavi con me, io sono di Porta di Termini, agli antipodi di viale Strasburgo e coi Totucci ci sono cresciuto.

    9. Sì, la mattola da piccolo me la ritrovavo pure io nelle scarpe, non per sembrare più alto (già ero bello sghilluppato di mio) ma per colmare il vuoto in punta (piede leggermente pacchione, e scarpe accattate in crescenza, “accussì ti durano cchiossai”). Inoltre ho dei ricordi molto vividi di mio padre che, pur non essendo panormita puro (di qualche decina di chilometri più ad ovest), mi rincorreva stanze stanze con una siringa nella mano destra e un pezzetto di “mattola” nella sinistra, per iniettarmi l’antitetanica (una sana attummuliata dalla bicicletta ogni tanto, con testa o mento spaccati… :-))
      Del “longo a matula”, nel senso dell’oggetto che descrivi, invece, non avevo mai sentito parlare, fino alla lettura di “Homo Panormitanus”: “ammatula” in Sicilia si usa un pò ovunque, in diverse locuzioni sempre col significato di “inutilmente” (molto usata : “parrari ammatula”), e mi sembrava più che probabile la provenienza dal latino “matula” (vaso da notte, pitale; est. “imbecille, stupidotto”); e in effetti l’oggetto che descrivi altro non è che una specie di improprio lungo vaso da notte… 🙂 D’altra parte, guarda un po’, il Mortillaro per “mattula” riporta la doppia accezione: cotone, o rinale… Che dire? Solo grazie (e complimenti), per le risate che ci fai fare e soprattutto per gli spunti che stuzzicano la mia curiosità e rinnovano il mio interesse per una lingua (e una cultura) che spero non muoia mai.

    10. Un mio professore chiamava un mio compagno molto alto e non particolarmente brillante negli studi “canna ‘i stennere” per indicare che pur essendo molto “lungo” era vuoto dentro. La trovo un’ottima variante del “longo a matula”

    11. Le liste di nascita però io le ho viste proprio qui a Palermo!

    12. Forse l’espressione “a matula” potrebbe spiegarsi con una etimologia greca. Nel greco antico, infatti, MATEN (con la e lunga) è un avverbio che significa “invano, inutilmente”.
      Un abbraccio.

    13. Non mi convince l’interpretazione di lungo ammatula.
      Mi sembrerebbe scontata e chiara la traduzione “inutilmente lungo” da affibbiare a una persona. L’attrezzo descritto da Billitteri esiste e viene chiamato “Sciatere e matre” ed è esposto al museo Pitrè

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