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venerdì 29 mar
  • Storie di un vecchio sbirro: Battagghinu

    Non era una notte buia e tempestosa. Anzi, era calma e luminosa. Ma il maresciallo Scibilia non riusciva a prendere sonno. Si rivoltava sul letto cercando di trovare una posizione che mitigasse il dolore alla spalla e le stramaledette cervicali che ormai non gli davano pace. Eppure si muoveva come un gatto: leggero e senza fare rumore. Per non svegliare la moglie Sofia. Povera donna, tutto il giorno a faticare e ora pure i gemellini, i due nipotini che la figlia scodellava puntualmente a casa loro alle sett’albe. Ma a quei due marmocchi, tosti come Dio li fece, nessuno pensava come a una fatica. Figuriamoci Sofia che ci passava la giornata a chiamarli: Marcooooo, Mirkoooo… Ma vedi tu che nomi. Con la scusa dei gemelli, aveva perso l’occasione di avere un nipotino che si chiamasse Salvo come lui. Sì, proprio. Che c’è di male? Epperò non è conto che li potevano chiamare Salvo tutti e due. Ma una volta che li hanno chiamati Marco e Mirko, che ci voleva a chiamarli Salvo e Tore? O Salvo e Totò? Ma comunque, l’importante è che i bambini sono sani e pieni di vita, poi come si chiamano chiamano.
    Il maresciallo decise che il letto era il posto più sbagliato dove passare la nottata. Così si alzò, infilò i piedi nelle tappine di pelle, mise la vestaglia leggera sopra il pigiama e andò in cucina sfregandosi il mento e sentendo sotto le dita la barba ispida. Tirò fuori dal frigorifero una bella bottiglia di quelle col tappo a molla, ci mise dentro una bustina di Cristallina, prese un bicchiere e andò nel terrazzino.
    Amava quel terrazzino. Specialmente di notte. Anzi, nella mezzorata che veniva prima dell’aggiornata. Quando gli uccelli cominciano a cantare e il poco di luce che c’è non riesce a vincere quella delle lampadine. Un bel terrazzino, piccolo, silenzioso, pieno di piante grasse e di basilico, con un tavolino dove mettere a cena lui e Sofia, una di quelle cene silenziose ma serene dove non si parla mai di guai. “Sai, ha chiamato tua sorella e dice che quest’anno scendono….”. Oppure: “Ma lo sai chi si sposò? La figlia del signor Lo Gelfo”. Piccole cronache, leggerezza sbriciolata su una bella parmigiana di melanzane.
    L’acqua era pronta e il maresciallo aprì il tappo a molla con le orecchie tese: adorava il sibilo cristallino del gas che sfuggiva dalla bottiglia, gli dava una sensazione di fresco, di cose pulite. Lui che combatteva da quarant’anni con ogni sorta di cosa sporca per via del lavoro al Distretto. Ispettore Superiore, sostituto commissario. Ma per tutti ancora “marescia’”. Le sue mani cominciarono il gioco. La destra si mosse sul tavolo, sfiorando il bicchiere, e fece il gesto di afferrare un oggetto inesistente. La sinistra affondò nella tasca della vestaglia. Poi un gioco di dita nell’aria come a portare qualcosa alle labbra. E ancora le mani a coppa accanto alla bocca come a soffiarci dentro l’alito caldo. Il fatto è che l’Ispettore Superiore sta stava cercando di smettere di fumare. Ma certo non era la prima volta. Aveva provato di tutto: l’orecchino, che pareva un punk drogato, una partita di pillole miracolose che lo avevano solo fatto diventare stitico. Poi il consiglio del suo dottore, un vecchio medico di famiglia bonario e completamente pazzo. “Salvo – gli aveva detto – nel tuo mestiere ti capita mai gente che fa finta di fare qualche cosa? Che so: uno che fa finta di essere ricco e invece è morto di fame, uno che fa finta di essere onesto e invece e un gran ladrone?”. “Che domande mi fai? – aveva risposto – Ho passato la vita a frequentare solo gente così. Ma che c’entra col vizio del fumo? E il dottore gli aveva spiegato. “Salvo, tu devi continuare a fumare. Sì, esatto. Devi continuare a fumare solo che devi fare finta. Per il resto tu fumi ancora come un turco. Solo che fai solo i gesti, come un attore”. Certo, ce n’era voluto. Immaginarsi l’Ispettore Superiore Salvo Scibilia che davanti a malacarne e magnacci di ogni risma, comincia il suo gioco di mani sotto lo sguardo allibito di chi avrebbe ben altro cui pensare. Eppure il trucco funzionava. E ormai era a un anno dal primo giochino.
    Sorseggiò l’acqua frizzante allungando le gambe sotto il tavolino. Si era accollato proprio una bella gatta a pettinare ma oramai non si poteva più tirare indietro. La negativa all’amico suo doveva farla subito. E non gli mancavano le scuse. Ma a minestra riquariata no, non poteva essere, pensò mentre dal nido delle rondini sembrava arrivargli un pigolio di approvazione. “Sì sì – mormorò il maresciallo – fata presto voi a dire pio pio tanto che pensieri avete? Dovete solo aprire la bocca quando la mamma vi porta i vermi. Qaundo invece i vermi li porto io, poi magari c’è qualche marpione di avvocato che se li porta liberi. E io ho lavorato per niente,Vero è: dice che quando ai vermi ci metto le mani di sopra non è conto che è sicuro che sono colpevoli. Tutti possono sbagliare. Ma io, rondinelle mie, io…non lo so… Io prima di ammuccarmeli ci perdo tempo, me li guardo belli sistemati. E quando alla fine me li porto… insomma, difficile che ho sbagliato”.
    Quella mattina di tre gorni prima al Distretto c’era un’aria da giorata tranquilla. La solita fila di gente che doveva denunciare il furto della macchina, del motorino o lo smarrimento dei documenti. I soliti anziani che si lamentavano per il casino dei picciuttunazzi fino alla sera tardi, e poi i pazzi fissi. Quelli che venivano ogni giorno alla stessa ora a raccontare cose incredibili: complotti, marziani, fantasmi. Quelli li accollavano tutti all’assistente Gargiulo che ci aveva verso, ci perdeva un poco di tempo fino a quando quelli se ne tornavano a casa dove, certo, spesso a volentieri non ci mancavano fantasmi come quelli, terribili, della solitudine.
    Nel Distretto la vita è così: lo specchio di quella della gente qualsiasi in un giorno qualsiasi senza tante mafie, senza tanti trafficanti internazionali. Certo la droga girava, il pizzo non ne parliamo. Ma quella era roba per la squadra mobile della questura, non certo per la squadra investigativa dell’ispettore superiore Scibilia Salvatore. Loro dovevano occuparsi delle cose piccole. Piccole per chi le guarda dall’altra parte del tavolo. Provate a spiegare a un povero cristo che ci hanno rubato la macchina nuova nuova, quella per la quale contiinuerà a pagare le rate alla finanziaria per sessanta mesi. Provate a spiegargli che è una cosa piccola. Ecco, loro di questo dovevano occuparsi. Ma a loro spettava pure la conoscenza di tutto il territorio del distretto, pietra sopra pietra, abitante per abitante. Così poi arrivava qualche pirito bollito di commissario, si sedeva alla sua scrivania, ordinava caffè, si faceva portare qualche fermato giusto per dire che stava facendo qualche cosa, ci dettava un rapporto sgrammaticato all’assistente Gargiulo e poi metteva la firma al lavoro che aveva fatto la squadra e che a lui era stato impiattato con tutto il condimento. Ma così gira il mondo e Scibilia ormai manco ci si apprecava più.
    Tre giorni prima Vicè era arrivato verso le otto e mezzo e aveva chiesto subito di lui. Battaglia Vincenzo, classe 1941, abitante in questa via Sampolo 211, coniugato, pensionato, pregiudicato per reati contro il patrimonio, diffidato. Scibilia quel fascicolo lo conosceva a memoria. Era uno di quelli che lui chiamava “fascicoli commerciali”. Vuol dire che era uno strumento di commercio. Commercio di informazioni. Lui non ci dava tanto conto e Battaglia Vincenzo ogni tanto gli passava qualche informazione. Una cosa così. Battaglia non era granchè a dispetto del cognome. Era piccolo piccolo, mani e piedi piccoli, occhi piccoli, naso piccolo, bocca piccola. Lo chiamavano Battagghinu che non vuol dire piccola battaglia ma “battaglino” che è una barchina da trasbordo, di quelle che navigano poco ma portano grossi carichi, Come Battaglia Vincenzo.
    “Allora Battagghinu, che sentisti il ciavuru del caffè? Che fa lo sai che a questora qui chiamiamo il picciotto del bar?”.
    “Ma che dice Cavaliere… Io manco ne posso prendere caffè”.
    “Ah no? E che ti venne?”.
    “Gomito e rovescio tutta la nottata. Manco ‘u bibitas ci potè. E dire che mi ero ammuccato pure una mezza chilata di decarbonato”.
    “Vicè, niente niente hai lo stomaco fradicio?”.
    “Ci può mettere la firma, marescià, ho le budella a matapollo”.
    “Che ci fu Vice’? Hai problemi? Qualche residuo di pena, ti venisti a costituire?”.
    “Ma quale, cavaliere. Io non ho più niente e lei lo sà. Le carte mie come le conosce lei, nessuno. No, non è per me. È per Giulio”
    Battaglia aveva tre figli. Giulio era il suo primo nipote, figlio della primogenita Maria Antonietta. Il ragazzo aveva sedici anni e studiava per ragioniere.
    “Giulio? E che c’è? Mi hai detto sempre che è un picciotto bello assistimato”.
    “Confermo marescia’. Vero è ma ultimamente siamo preoccupati assai”.
    “Male compagnie?”.
    “Non ce lo so dire. Sua madre dice di no. Ma lo sa com’è: mia figlia è separata, ha un’altra bambina e lavora tutta la santa giornata. Noi, io e mia moglie, abbiamo pure gli altri nipoti che sono pure nutrichi. Non è conto che ci possiamo dare tanto aiuto. Così il ragazzo non è tanto guardato, mi spiego?”.
    “Sì certo ho capito. Ma perché sei così scantato?”.
    “Sua madre mi disse che ci mancano soldi dal borsellino”.
    “Miiii Vice’ mi pareva che era… che ci vuoi fare? Il nipote prese dal nonno e, se non ricordo male, pure dal padre…”.
    “Lassassi iri cavaliere, non c’è tanto di babbiare. Il ragazzo non ha sgriciato mai ma, dice mia figlia, da un pezzo di tre mesi o forse quattro, ogni settimana ci mancano soldi dal borsellino: il dieci euro, il cinque euro, il venti euro. Certo non si parta per il cinguanta euro, prende sempre diciamo poco ma regolare, Mi capisce?”.
    “Ogni settimana?”.
    “Sì, di solito di metà settimana: mercoledì o giovedì”.
    “Beh, questo intanto vuol dire che non ci servono per andarseli a mangiare alla dfiscoteca il sabato sera”.
    “No no, figuriamoci: quelli del sabato mia figlia ce li da e poi lui qualche cosa la viene a rascagnare pure da noi”.
    “Hai detto tre mesi?”.
    “Sissi marescia’. Forse magari quattro”.
    “E che vuoi da me?”.
    “Che ci dasse una guardata. Non voglio che il picciutteddu finisce là”.
    “Là dove?.
    “A pane e formaggino”.
    “Seee pane e formaggino…adesso là altro che pane e formaggino…dietro le sbarre c’è un ristorante…”.
    “Certo, per chi ha i piccioli…”.
    “Va bene, ma seondo te io che cosa dovrei fare? Non è che posso apriore un’indagine? Te lo immagini? Il famoso Ispettore Superiore Scibilia Salvator, che è così nerboso che ha levato di fumare, si mise a fare le indagini sui picciriddi che ci sbacantano il borsellino alla mamma. Minchia Vice’, una cosa del genere e non posso camminare strade strade”.
    “Maresciallo io sono venuto da lei. Non dalla polizia”.
    “Ma che discorso mi stai facendo?”.
    “Lei è un vecchio sbirro”.
    “Vice’….”.
    “No no, detto così è un complimento e lei lo sa”.
    “Va be’, sono un vecchio sbirro…e allora?”.
    “Allora lei lo sa come si fanno queste cose senza rovinare a nessuno”.
    “Dipende…”.
    “Certo, dipende. Lo so che se trova cose tinte lei fa quello che deve fare”.
    “Ecco, è buono che questo lo sai”.
    “Lo so, non si porcupi. Ma noi qualche cosa la dobbiamo sapere. A costo che finisce là. Ma se c’è cosa, ci dobbiamo mettere mano subitamente. Lei, torno a dire, è un vecchio sbirro e magari riesce a sapere cose senza neanche bisogno che si muove dalla sedia. Io questo ci chiedo. A buon rendere”.
    “Ma dimmi una cosa: Giulio a scuola ci va sempre?”.
    “Sissi maresciallo, come un soldatino. E dovesse vedere che pagelle che porta? Tutti sette e otto. I maestri ci dicono cose bellissime a mia figlia”.
    “È zito?”.
    “A sedici anni? Figuriamoci. Va scaminiando. Poi lei lo conosce no? È bello che per fortuna non ha preso di suo nonno. Dice mia figlia che ci sono telefonate in continuazione tutta la giornata. Ma non c’è una in particolare, mi capisce?”.
    “Sì, ho capito. Va be’ Battagghino, fammi sentire se si dice qualche cosa piedi piedi. Appena ho notizie ti cerco io, va bene? E stai sereno: sono picciotti”.
    Ora, dopo tre giorni, aveva sapito tutto quello che c’era da sapere e l’indomani avrebbe telefonato a Battagghino per dirgli di avvicinare al Distretto. Bevve un altro bicchiere d’acqua proprio mentre arrivava Sofia, la vestaglia stretta al collo.
    Sofia era ancora bella. Era minuta ma proporzionata. Aveva i capelli biondi tagliati a caschetto che incorniciavano gli occhi azzurri che sembravano un cielo di marao senza nuvole. Aveva la bocca piena così facile ad aprirsi in un sorriso. E quando sorrideva le si formava una fossetta sulla guancia e gli occhi le si accendevano. E le rughette che si creavano agli angoli, sembravano i portatori egiziani di Ra, la dea del sole”.
    “Salvo, ti senti male? C’è cosa?”.
    “Ma no Sofia, tranquilla. Lo sai che dormo poco e poi mi piace stare qui a quest’ora. Specialmente quando devo pensare”.
    “E che pensieri hai? Cose di lavoro?”.
    “Ti ricordi che l’altro girno ti raccontai che mi venne a trovare Battagghinu?”.
    “Sì, certo. Quello che aveva il pensiero al nipote, che si scantava che si era fatto malacarne?”.
    “Esatto, lui”.
    “E tu hai saputo qualche cosa?”.
    “Sofia, io lo sbirro faccio…certo che ho saputo qualche cosa. Tutto ho saputo”.
    “E lui già lo sa?”.
    “No, glielo dico stamattina”.
    “Te lo faccio un caffè gioiamia?”.
    “No no, poi me lo fai prima che esco”.
    “Sì”.
    “Giulio si chiama”.
    “Chi?”.
    “Il nipote di Battagghiunu”
    “Ah…”
    “È bello sai? Pare un attore di questi delle fiction della televisione… Bello e pure coscenzioso: va bene a scuola, non ha amici tinti. Solo che sembra un poco più grande della sua età”.
    “Ma che dici, a quelli della televisione si vede che sono picciuteddi…”.
    “L’ho seguito per tre giorni…”.
    “Ah.. addirittura”.
    “Sì perchè lo sai come sono: quando una cosa non mi quadra io devo prendere matita e squadretta e farla quadrare”.
    “Eh sì, lo so come sei…”.
    “Insomma l’ho seguito. Di giorno niente, le cose normali dei ragazzi. Ma di sera, versoc le nove e mezzo, va sempre in una casa in via Montalbo. Apre con le chiavi e esce dopo una paia di ore. Spesso quando arriva ah dei sacchetti in mano ma non lo ha quando esce”.
    “Spaccio?”.
    “Questo avevo pensato ma mi sbagliavo”.
    “Sì? Ma chi tu?”.
    “Eccerto, pure io sbaglio. Cioè, mi ero fatto quell’idea ma non ero convinto. Come infatti avevo ragione…”.
    “Ah ecco, ora ti riconosco, avevi ragione di non essere convinto di quello che avevi pensato e che invece era sbagliato. Certo….”.
    “Mi sfotti sangue mio? Fai bene…Tu mi puoi sfottere perché sei la mia vita”.
    “Se se…ava’ continua che mi hai fatto venire la curiosità”.
    “Ieri sera, dopo che è uscito io sono riuscito ad entrare nel portone. Da fuori avevo visto che ogni volta che lui arrivava si illuminava una finestra al primo piano. Era una di quelle scale dove c’è un appartamento per ogni piano. Non potevo sbagliare”.
    “E che hai fatto?”.
    “In primis niente: ho appoggiato l’orecchio alla porta e si sentiva solo rumore di televisione e un pianto di bambino. Così ho deciso di bussare”
    “Salvo, ma un poco di prudenza? Metti che laddentro c’erano cinque malacarne che si stavano spartendo i soldi dello spaccio…”.
    “No Sofia, non poteva essere. Nessuno fa la spartenza senza parlare o senza sciarre. No in casa c’era solo un bambino e un adulto silenzioso. Quasi sicuramente una donna”.
    “Così hai bussato…”.
    “Sì è una voce di donna mi ha chiesto: chi è?”.
    “E tu ci dicisti: aprite, Polizia!”.
    “Ma quale… ci dissi: sono Salvo Scibilia, un amico di Giulio…”.
    “E quella ti aprì….”.
    “Mi aprì, sì”.
    “E allora?”.
    “La dovevi vedere. Avrà avuto sedici anni. Tanti capelli ricci in testa, due occhi come due palle di cannone nere, due labbra che sembravano due fette di mellone rosso, un corpo da restare incantato. Nera come la notte. Nera ma proprio nera e più nera sembrava nella sottanina bianca che aveva di sopra. Ci dissi: posso sapere chi è lei? E lei mi rispose: Sono un’amica di Giulio, mi chiamo Nabilah Hausa e sono della Nigeria.
    “Buttana?”.
    “Sofia, non è conto che tutte le nigeriane che non sono in nigeria, sono buttane, è giusto?”.
    “Certo, vero è. Ma Nabilah era buttana?”.
    “Sì, appunto. Era.”.
    “Ah ecco…”.
    “Sì Sofia, nel senso che ora non è più buttana”.
    “E che fece, arricchì?”.
    “In un certo senso…”.
    “Non ne ho capito più niente. Continua a raccontare”.
    “Mi fece entrare. La casetta era piccola e povera. Ma bella sistemata e pulita. MI fece sedere e mi chiese che cosa volevo. Io ci dissi che la famiglia di Giulio era preoccupata perché aveva notato qualche cambiamento. Non ci dissi dei soldi arrubbati alla madre. Solo che si erano apprecati agli orari e così via”.
    “Sì”.
    “Poi ci domandai che faceva. E lei mi disse che non faceva niente. Allora ci dissi: e come campi allora? E lei mi rispose: mi arrangio ma senza più campare come campavo prima. Ci feci caire che avevo capito e a questo punti ci domandai se la campava Giulio. Lei mi disse che non la campava vero e proprio ma che l’aiutava”.
    “Insomma, non è fare la buttana, pero…certo…”.
    “No no, aspetta. Io ci spiegai chen non era cosa di farsi campare da un ragazzino che adava ancora a scuola e i soldi ce li arrubbava a sua madre. Lei si mise a piangere, disse che questo non lo sapeva, che Giulio ci aveva detto che era impiegato come fattorino in un negozio di ricambi. Che se no non avrebbe mai accettato. A questo punto ci domandai: ma avete una storia? C’è innamoramento? e lei mi rispose: c’è molto di più”.
    “Miiii Salvo….”.
    “Mi prese per una mano e mi portò nella cammara da letto…”.
    “Ecco, lo vedi?? Buttana!!!”.
    “Zittuti… mi portò nella stanza da letto. Accanto al letto grande c’era una culla con un nutrico che dormiva. Mi fece avvicinare e accese la luce del comodino. “Questa è Rashidah mia figlia”, mi disse. Sofia, mi devi credere. La bellezza di questa bambnina non è normale. Sembra il pulcino di una tortora, una faccia serena, pacchionella, la naschitta scafazzata come tutti i neri. Ma non era proprio nera nera come a sua madre. Come una tortora appunto. Mentre la guardavo ripetevo: Rashidah, Rashidah…e lei mi disse: Sì: Rashidah Rosalia…. Hai capito?”.
    “No!”.
    “Come no, Sofia, manco tu mi pari. Rashidah Rosalia. Non ho avuto bisogno di domandarci chi era il padre perché che Rashida era la figlia di Giulio si vedeva a lampo”.
    “Ma che dici? Ci fece una figlia? Ora capisco…”.
    “Esatto. E questo spiegava tutto: i furtarelli, le assenze, tutto. Perfino i buoni risultati a scuola”.
    “Perché?”.
    “Perchè lei mi disse che Giulio si vuole spicciare a diplomarsi per cercare un buon lavoro. Così si sposano”
    “Ah bello…”
    “Seee, Giulio che si sposa con una nigeriana ex buttana? E chi ce lo racconta a Battagghino?”.
    “Tu amore mio, proprio tu”.
    “E come faccio, per quello sarà come una legnata in testa”.
    “Certo. Ma tu ci spieghi tutte cose come sai fare tu. E ci racconti che ha un nipote con la palle che a sedici anni già si comporta meglio di tanti masculi pezzi di fango e che lui non si deve vergognare di niente e che si deve sentire come te che non ti vergogni di niente e che i ragazzi sono coraggiosi e si devono aiutare”.
    “Sì farò così”.
    Al Distretto è una mattinata un po’ così perché c’è la presentazione del nuovo commissario soprintendente alla squadra amministrativa, il dottore Pettinato (ma è tignuso, così impara). Quando arriva Battagghinu deve fare un poco di anticamera. Scibilia lo fa entrare mentre sta finendo di “fumare” la sua inesistente sigaretta. Battaglia si siede.
    “Cavaliere, se mi ha chiamato vuol dire che ha saputo qualche cosa”.
    “Sì Battagghino. Ma prima dimmi una cosa. Tua moglie come sta?”.
    “Insomma cavaliere, come deve stare? Ci combatto tutta la giornata ma di quando ha avuto la botticella non può camminare sola. Ma che c’entra questo con mio nipote Giulio?”.
    “No, ti volevo dire che tua moglie avrebbe bisogno di una badante”.
    “Se maresciallo e come la pago? Magari…”.
    “No Battaglia, questa che ti propongo io non la devi pagare. Cioè la devi pagare in un altro modo”..
    “Non la capisco maresciallo….”
    “Ora te lo spiego ma prima fatti dire una cosa: tuo nipote Giulio ha due coglioni che sembrano quelli del cavallo di Vittorio Emanuele davanti alla Stazione”.

    Palermo
  • 8 commenti a “Storie di un vecchio sbirro: Battagghinu”

    1. Daniele, io proporrei i tuoi racconti nelle scuole. Di sicuro creerebbero ideali migliori…

    2. Daniele….. sei meglio di Camilleri… con tutto il rispetto per il Maestro, che scrive storie agrigentine con la stesso fascino con cui tu scrivi le palermitane.

    3. saper scrivere è un dono e tu questo dono ce l’hai, hai un tuo stile e per certi versi mi ricordi i primi montalbano (perché gli ultimi che ho letto sono stati veramente forzati) spero di trovarti presto in libreria!!

    4. Semplicemente Bellissima.
      Bravissimo Daniele… complimenti

    5. ma grassssieeee!!!! 🙂

    6. Complimenti!
      Hai veramente talento! Mi piacerebbe vedere pubblicata qualche altra tua storia soprattutto se tratta di vita comune.

    7. bella è!

    8. Bravissimo! complimenti !! sarebbe bene che venissero raccolte e pubblicate. Auguri.

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