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giovedì 28 mar
  • Cuffaro bis, l’aporia del doppio processo

    Nel primo processo, il c.d. processo alle “talpe”, iniziato nel 2005 e durato circa tre anni la Procura di Palermo aveva chiesto otto anni: il presidente della Regione è stato invece condannato a cinque anni di reclusione.
    Nel processo alle «talpe» sono stati contestati al governatore quattro capi di imputazione: due per il favoreggiamento personale e altri due per la rivelazione e l’utilizzazione di segreti d’ufficio, tutti con l’aggravante di avere favorito la mafia che però non è stata riconosciuta dai giudici della terza sezione del tribunale di Palermo. Per l’accusa, il Governatore avrebbe appreso nel 2001 dall’ ex maresciallo dei carabinieri, Antonio Borzacchelli, poi eletto deputato regionale, dell’esistenza di microspie sistemate dai Carabinieri del Ros nell’abitazione del boss di Brancaccio, Giuseppe Guttadauro. Il salotto del boss, già condannato all’epoca per mafia, era frequentato da un amico di Cuffaro, il medico Domenico Miceli, ex assessore comunale alla sanità, anche lui Udc, condannato nel dicembre 2006 a otto anni di reclusione per concorso esterno in associazione mafiosa. Borzacchelli avrebbe avvisato Cuffaro dell’esistenza delle cimici a casa Guttadauro e il presidente della Regione lo avrebbe a sua volta comunicato a Miceli. In questo modo il boss di Brancaccio avrebbe scoperto le microspie, bruciando l’inchiesta.
    Tutta la vicenda è ricostruita nell’ottima docufiction Doppio gioco realizzata collazionando le intercettazioni audio e video realizzate dai Carabinieri del ROS ed oggi visibile in dieci parti solo su YouTube.
    La procura (De Lucia, Di Matteo, Pignatone, Prestipino) si è divisa sull’imputazione da contestare: favoreggiamento alla mafia o concorso esterno in associazione mafiosa. È prevalsa la prima tesi: i pubblici ministeri De Lucia e Prestipino hanno così contestato il favoreggiamento personale con la doppia aggravante di aver favorito singoli mafiosi (art. 378 co. 2 c.p.) e conseguentemente l’intera organizzazione (art. 7 d.l. 152/91), mentre è stata archiviata l’indagine per il reato di concorso esterno. Il sostituto Paci si è rifiutato di condividere la contestazione ed è uscito fuori dal pool titolare dell’indagine. La posizione di Paci, riferisce la cronaca giudiziaria del tempo, sarebbe stata condivisa dall’ala dei “Caselliani” contrapposta a quella parte della procura vicina al procuratore Grasso (c.d. “Grassiani”).
    All’esito del dibattimento, il Tribunale ha ritenuto provata soltanto la prima aggravante (aver favorito uno o più mafiosi), non la seconda (aver favorito l’intera organizzazione), ma è comunque pervenuto ad una sentenza di condanna e non invece ad un’assoluzione, come aveva paventato il sostituto Paci che, come riferisce Repubblica il 20 luglio 2004, avrebbe dichiarato: «Qualificare le condotte contestate in favoreggiamento significa svuotare l’inchiesta destinandola all’archiviazione». La c.d. linea “morbida”, ovvero la contestazione di un reato meno grave ma sorretto da solide prove, si è rivelata vincente e lo sarebbe stata ancor di più se il tribunale avesse riconosciuto che Cuffaro aiutando il boss Guttadauro ha consapevolmente agevolato Cosa Nostra nel suo complesso (aggravante ex art. 7).
    Accade però che nel maggio 2007 il Procuratore Messineo apre un nuovo fascicolo per concorso esterno a carico di Cuffaro e lo affida agli aggiunti Pignatone (oggi Procuratore a Reggio Calabria) e Morvillo. Il 2 ottobre 2009 si chiude, con avviso all’ex governatore Cuffaro, l’indagine per concorso esterno: il provvedimento è firmato dal procuratore Messineo e dal sostituto Di Matteo. Vale la pena di ricordare che nella requisitoria del processo alle “talpe” il pm De Lucia ha ritenuto di dover spiegare al Tribunale le ragioni per cui veniva contestato il favoreggiamento personale, ancorché doppiamente aggravato, e non invece il più grave reato di concorso esterno: non vi era, spiega De Lucia, prova che la candidatura elettorale di Miceli fosse stata concordata tra Cuffaro ed il boss Guttadauro. Ora, si può decidere di “volare basso” per colpire in modo sicuro ed efficace (Al Capone docet), ma non c’è motivo di spiegare le ragioni per cui si è ritenuto di non “volare alto”: fuor di metafora, di sillabare al tribunale l’insussistenza del più grave reato di concorso esterno. Questo passaggio della requisitoria è stato, a mio avviso, un errore “politico” e tecnico: perché ha inevitabilmente irritato l’ala “caselliana” e perché, a ben vedere, il Tribunale potrebbe in ogni caso qualificare diversamente i fatti contestati all’imputato (art. 521 c.p.p.): cioè, malgrado la contestazione del reato meno grave di favoreggiamento, il giudice potrebbe comunque ritenere sussistente il più grave reato di concorso esterno. Non si è mai visto un pubblico ministero che contestando un omicidio colposo sente l’esigenza di spiegare perché l’omicidio non può considerarsi doloso: bene ha fatto la pubblica accusa a contestare il favoreggiamento aggravato, ma perché pregiudicarsi la possibilità che il Tribunale si convinca che ci sono gli estremi del concorso esterno?
    Ciò non toglie che il complesso dei procedimenti pendenti a carico di Cuffaro manifestino un’inedita aporia. Pongo allora alcune questioni e lo faccio in punta di piedi non avendo sufficienti competenze. Il governatore è già stato condannato in primo grado per favoreggiamento di singoli soggetti mafiosi (art. 378 c.p. comma 2). In appello il giudice potrebbe accogliere la richiesta della procura generale e optare per l’aggravante cosiddetta ex art. 7 (art. 7 D.L. 152/91) che si applica quando il reato (in questo caso il favoreggiamento) è commesso con la volontà specifica di agevolare l’intera associazione criminale. Ma potrebbe addirittura, ancorché sia meno plausibile, condannare l’imputato per concorso esterno in associazione mafiosa, qualificando i fatti contestati in modo diverso da come li ha qualificati la pubblica accusa (art. 521 c.p.p.): come si concilierebbe il contenuto di questa ipotetica sentenza di appello con un parallelo procedimento per concorso esterno in primo grado?
    Si potrebbe replicare che sono sopravvenute nuove prove che aggravano la posizione dell’imputato, sicché si rende necessario un procedimento parallelo. Teniamo però conto del fatto che il giudice dell’appello può – addirittura d’ufficio, se lo ritiene “assolutamente necessario” – tenere conto di nuove prove: può cioè rinnovare l’istruzione dibattimentale (art. 603 c.p.p.). Tecnicamente allora l’esistenza di nuove prove (che si aggiungono a quelle del primo processo) di per sé non giustifica l’apertura di un procedimento parallelo: le prove possono essere acquisite nel primo processo e corroborare il convincimento del giudice dell’appello, o addirittura indurlo a qualificare i fatti in termini di concorso esterno. D’altro canto, specularmente, il nuovo procedimento non può che esaminare gli stessi fatti oggetto del primo (oltre che eventuali nuovi fatti): il che è un problema, sia (o forse soprattutto) se dovesse arrivarsi ad una sentenza di assoluzione, sia se all’esito del nuovo processo dovesse pervenirsi ad una sentenza di condanna. Si può, solo per fare un esempio, essere al contempo condannati per favoreggiamento dell’intera organizzazione mafiosa ex art. 7 e, in altro processo, per concorso esterno? Sul piano tecnico si può già dubitare dell’applicabilità dell’aggravante ex art. 7 al reato di favoreggiamento, posto che un favoreggiamento che finisca per agevolare l’intera organizzazione criminale non è più facilmente distinguibile dal concorso esterno: ma qui non si tratta più di qualificare una complessità di condotte in termini di favoreggiamento aggravato ovvero di concorso esterno, piuttosto di valutare tali condotte, grossomodo le medesime condotte, in due distinti processi, con l’inevitabile esito di un fenomeno di duplicazione o di contrasto tra sentenze.

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  • 3 commenti a “Cuffaro bis, l’aporia del doppio processo”

    1. ciok stanno processando cuffaro prima per aver favorito cosa nostra e poi per concorso esterno, cioè per aver dato un contributo non occasionale a cosa nostra. Ma il contributo più significativo é stato proprio aver favorito alcuni mafiosi. Quindi perché un doppio processo?

    2. Secondo quanto riferisce La Repubblica del 18 novembre 2009 (http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/2009/11/18/mistero-sull-archivio-del-padrino-spunta-la.html)
      un nuovo pentito, Gaspare Romano, sostiene che quindici anni fà Cuffaro avrebbe partecipato ad un conviviale a Portella della Ginestra con alcuni mafiosi (Santino Di Matteo, Emanuele Brusca). Si poteva acquisire questa dichiarazione già nel primo processo (cioé in appello)?
      Vi sarebbe poi, tra le nuove prove, una dichiarazione del boss Di Gati, che però non è affatto nuova: il boss agrigentino, ora pentito, racconta di avere avuto indicazioni di votare Cuffaro. Ma questo lo riferisce già La Repubblica il 13 giugno 2007. Per cui quello che riferisce Di gati ben poteva valutarsi già nell’ambito del processo di appello (ad esmpio Di Gati, come Spatuzza è stato sentito nell’appello contro Dell’Utri).
      A meno che non si ritenga che queste prove attengono fatti che non stanno nell’imputazione (art. 187 c.p.). Cioé, poiché l’imputazione è stata “limitata” dalla procura al favoreggiamento di alcuni soggetti mafiosi non può introdursi nel processo una dichiarazione volta a provare rapporti di contiguità mafiosa (Maurizio Di Gati, Gaspare Romano) che vanno “oltre” l’aver favorito singoli mafiosi (e conseguentemente l’intera organizzazione, art. 7).

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