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sabato 20 apr
  • Piccola visione notturna

    Notte.
    Un teatro.
    Una targa d’oro opaco su una parete purpurea corrosa da muffe verdi e la sua scritta: “Gran Real-Teatro Palermo”, qualche lettera pende a testa in giù sorretta da un incerto chiodo arruginito.
    Era bello, invidiato, ordinato, splendido un tempo.
    Ci sono dentro e lo osservo. Ora è diverso, decadente, polveroso, immerso in una densa e vischiosa penombra che avvolge tutto.
    Sul palcoscenico di legno vecchio, un enorme letto, con le sue putride lenzuola, troneggia al centro. Sopra distese, tre figure accidiose giacciono in un sonno lascivo.
    Sono lo Sdegno, la Civiltà e il Diritto. Un tempo erano guizzanti, alte, fiere e rispettate. Ora colano di adipe dalle loro lucide, nude pelli, paiono fuse in un solo corpo molle, indistinto.
    Attorno al loro capezzale mostri impazziti ballano e recitano, gozzovigliano e copulano tra i loro stessi escrementi.
    La sala è piena ma la gente seduta è ferma, sembra morta, in silenzio guarda davanti a sé, gli occhi vuoti, vitrei, riflettono, respingendole, le immagini che ricevono.
    C’è anche gente in piedi, si muove, corre, salta noncurante sopra le teste in fila di chi è seduto, forma gruppi, si insegue, poi si disperde, poi si riunisce ancora, si confonde, urla in un linguaggio confuso, agita le braccia in preda alla pazzia e al dolore.
    Al piano superiore, dai palchi, vedi affacciarsi spalle e schiene, spalle grasse, volgari, enormi, avvolte in costose giacche, schiene nude e sinuose, palpeggiate consenzienti da tondiccie mani vogliose.
    Abbasso lo sguardo, triste ed impaurito.
    Avanzo ancora tra le rovine, il puzzo acido che trasuda dalle pareti ingiallite brucia le mie narici e sento il veleno di questo assurdo delirio entrare in me e fiaccarmi, come bastonato.
    Sto per cedere quand’ecco d’improvviso uno sparuto gruppetto di indistinte sagome muoversi in fondo, rovistare tra gli impolverati macchinari scenici, cercare un occhio di bue, trovarlo, accenderlo e puntarlo. La sua accensione è una piccola esplosione di rumore e luce.
    Uno schioppo sordo, netto. Osservo meglio mentre mi avvicino a loro.
    Ognuno di loro sceglie liberamente dove puntare, osserva e poi lascia lo strumento al resto del gruppo che intanto si dispone in fila, ordinatamente, dietro di sè. Puntano cose diverse, scelgono, sono vivi,
    coscienti e, Dio solo sa quanto, determinati.
    Osservano fatti grandi, piccoli, privati e manifesti, ma tutti orrendi, drammatici e violenti.
    Illuminano mostri, pazzi e qualche schiena in giacca, scesa giù intanto anche lei a sporcarsi le mani furtiva prima di ritornare sopra, sorpresi tutti carponi, come belve feroci, nelle loro infamie e prepotenze.
    Il cerchio di luce turba la loro notte nera ed essi coprono con una mano i loro piccoli occhi scuri e cattivi e, traguardando le loro dita di bestia, puntano verso il faro ringhiando rabbiosi e demoniaci.
    Ad ogni passaggio di mano il faro viene spento e riacceso e il piccolo tuono elettrico che ne segue si ripete di nuovo.
    Mi metto in fila allora anch’io e aspetto il mio turno. Sono l’ultimo.
    O almeno credo.
    Mi giro e già dopo cinque accensioni altrettante persone sono dietro di me. Scosse dal suono improvviso si sono alzate dalle loro file e mi stanno dietro, parlano composte e se le guardi negli occhi ne vedi adesso il colore vivo.
    E il piccolo miracolo si ripete lento, rituale e perfetto ad ogni crepitio della lampada e dei suoi potenti watt.
    Lento ma cadenzato ed inarrestabile.
    Già una cinquantina di persone scalpita dietro di me, scalpita per denunciare ma non urla, è la loro anima che scalpita, è d’acciaio, lucida, determinata e ne senti la presenza anche se parla piano, come un sussurro, ma di tante voci, e ne viene fuori quasi un vento, e mi attraversa.
    I mostri ora, come uno sciame famelico, puntano verso la luce, sempre più vicini, si ribellano, vogliono che la notte continui e ghermiscono l’onda di luce ma più si avvicinano più bruciano e, come mosche fulminate da una scarica improvvisa, cadono con fragore uno dopo l’altro.
    Arriva il mio turno, punto, faccio luce e passo la mano, dietro di me una coda enorme, tra le file solo sedie vuote.
    I mostri hanno paura, la luce li uccide, li mette in fuga e le loro affilate unghie nulla possono contro di essa.
    Sono sempre di meno, sempre di meno.
    Restano le schiene e le spalle lassù tra i palchi. Per tutto il tempo sono rimaste girate divertite nel loro mondo di feste, di risate senza volto, beffarde e finte, e di vitelli d’oro da adorare.
    Saliamo allora, spranghiamo le porte, un palco dopo l’altro, dal tetto facciamo poi scivolare a filo, giù su di loro, un fitto tendaggio impenetrabile che li nasconda per sempre alla nostra vista.
    E li seppelliamo così, ancora vivi, senza cerimonie e gesti di rabbia. Loro non protestano, non si sono accorti di nulla e resteranno lì nei loro palchi a consumarsi l’anima fino alla morte.
    È ora di spegnere il faro per l’ultima volta, è giorno ormai, l’ultimo clic.
    Un bambino esce dalla prima fila, nessuno lo avevo notato, la spalliera era troppo alta per vederne da dietro anche solo la testa.
    Cammina appena, si guarda attorno, curioso, lo circondano macerie in silenzio.
    Gli andiamo incontro, rumorosi e festanti, non più in fila come dietro il faro, un po’ in disordine stavolta, ora siamo noi a circondarlo, non più le macerie.

    Ospiti
  • 3 commenti a “Piccola visione notturna”

    1. purtroppo non è sempre così facile distinguere…e spesso non si hanno nemmeno le risorse per farlo. questo è il motivo per cui ci siamo ridotti così.
      possiamo solo augurarci che comunque ci sia sempre qualcuno fare “ex tenebris lux” affinchè gli “altri” capiscano che a tutto c’è un limite.
      forse “ritrovare il senso del limite” dovrebbe essere il nostro motto

    2. Fantastico…

    3. « Quando come un coperchio, il cielo basso e greve
      schiaccia l’anima che geme nel suo eterno tedio,
      e stringendo in un unico cerchio l’orizzonte
      fa del dì una tristezza più nera della notte,
      quando la terra si muta in umida cella segreta
      dove sbatte la Speranza, timido pipistrello,
      con le ali contro i muri e con la testa nel soffitto marcio;
      quando le immense linee della pioggia
      sembrano inferriate di una vasta prigione
      e muto, ripugnante un popolo di ragni
      dentro i nostri cervelli dispone le sue reti,
      furiose ad un tratto esplodono campane
      e un urlo lacerante lanciano verso il cielo
      che fa pensare al gemere ostinato
      d’anime senza pace né dimora.

      -Senza tamburi, senza musica, sfilano funerali
      a lungo, lentamente, nel mio cuore: Speranza
      piange disfatta e Angoscia, dispotica e sinistra
      infilza nel mio cranio il suo vessillo nero. »

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