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giovedì 25 apr
  • Quaderno di Palermo 14

    Anche a causa delle celebrazioni del ventesimo anniversario della caduta del muro di Berlino il novembre scorso, sul finire dell’anno appena trascorso si è scritto e anche parlato con dovizia degli ostacoli e dei limiti con i quali gli uomini separano tanti paesi e realtà contigue. Un esempio tra i tanti è il muro non ancora concluso tra Israele e i territori palestinesi o quello previsto al nord del Rio Grande e che spaccherà sempre di più gli Stati Uniti e il Messico. Per non parlare di quello, invisibile, che si alza tra il popolo belga a testimonianza della crisi istituzionale alla quale abbiamo assistito tra i valloni e i fiamminghi o, ancora, di quelle divisoni imposte dalla guerra dei Balcani nell’ex Jugoslavia per le ragioni che tutti sappiamo. E per aggiungere due ulteriori e noti esempi si può infine ricordare sia la barriera alzata da tanto tempo tra i cittadini iraniani e il “bunker” rappresentato dal regime degli ayatollah, sordo a qualsiasi apertura verso il mondo, inasprendo ultimamente ancora di più il loro teso rapporto, sia quell’altra divisione sorta più di mezzo secolo fa nella Guerra di Corea e che come risultato aveva spaccato il paese in due, per immettere altri esempi risaputi.
    Ma lasciamo il mondo da parte per venire più vicino, qui alla nostra città di Palermo. In qualità di forestiero che ci abita da ormai più di due anni, e che ha la pretesa di capire alcuni fatti attraverso la semplice curiosità e la conoscenza che dà la familiarità delle abitudini, oserei affermare che anche la capitale siciliana ha la sua frontiera interna. Potremmo individuarla, metaforicamente parlando, lungo le spesse mura che a tratti separano l’enorme, affascinante e a volte degradato centro storico, dalla talora impersonale, intraprendente ma anche boriosa “città nuova” emersa dopo la seconda guerra mondiale. Certo, è lecito affermare che questo confine tra i diversi quartieri o rioni esiste nelle sue specifiche forme in qualsiasi città del mondo; ma ammettendo questa evidenza universale io vorrei insistere su Palermo perché in linea di massima, la maggior parte degli abbitanti dei quartieri popolari del centro storico sono l’ultimo anello di una luga catena di generazioni susseguitesi in quegli spazi (si può parlare in un altro momento di quello che è successo negli ultimi decenni con l’arrivo di altri popoli, soprattutto orientali, e che costituiscono ormai parte integrante del tessuto urbano e civile della città). Infatti, si tratta di cittadini palermitani di vecchia data, dall’artigiano più artigiano al nobile più nobile, se mai in quest’epoca globale si possono ancora trovare autentici membri di queste categorie. Il fatto è che nessuno può negare che l’opinione di questi quartieri, sconosciuti dai più giovani e non solo, sia andata progressivamente peggiorando. Quante volte mi sono trovato con gente che non ci mette piede in questi “territori” e che ha la sfacciataggine di dirmi che non ci si può vivere. Sì, come se queste vie della città non facessero parte del suo vivo ritmo quotidiano, quando la cosa fondamentale è che Palermo non può continuare a voltare le spalle alla sua parte storica e quindi alla sua memoria. Un territorio che tra l’altro si esprime anche in vernacolo e che è parte integrante di tutti. Quando ogni palermitano sarà consapevole di questo fatto, il comune in prima persona, e per fortuna mi sono imbattuto in alcuni che lo sono, allora si potrà avviare una vera politica di riforma e di ripresa che coinvolga tutti e ognuno degli abitanti, senza nessun divisorio e con omogeneità. Un modo pure di far rinascere una città che, nel momento stesso in cui reintegra la sua memoria, si fa l’obbligo di guardare al futuro. Forse non merita di avere in mezzo agli altri un posto adatto alla sua ricca complessità?

    Diglossia.

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  • 4 commenti a “Quaderno di Palermo 14”

    1. Il tuo discorso è abbastanza interessante ma contiene alcune inesattezza – date dal fatto che non sei nato qui, comunque, e dunque assolutamente giustificabili. Molti palermitani “di vecchia generazione” in realtà dalla fine degli anni 60, sull’onda di un piano regolatore mai compiuto del tutto, sono stati spostati negli attuali quartieri popolari di Borgo Nuovo e dello Zen, ben lontani dal centro storico. Il centro, specie la parte più vicina alla stazione, ha visto in quegli anni notevolmente crescere la popolazione immigrata di cui tu parli. Devi considerare anche un altro fattore: fino ad una decina d’anni fa non era nemmeno pensabile uscire ed andare la sera nel centro storico. Si tratta di una faccenda recente, da un 7-5 anni a questa parte; finalmente si è iniziato a conoscerere e frequentare i mercati vecchi, la zona di piazza sant’anna, la zona di corso vittorio, piazza kalsa, tutti luoghi che fino a una decina d’anni fa erano visti come terra di nessuno, e che oggi sono gli abituali luoghi di ritrovo. Il progresso quindi c’è stato, ed è ancora in corso: posso assicurarti che molti della mia generazione vanno spostandosi (a vivere) verso il centro storico, anche per un fatto economico. Chiaramente ci sono molte “sacche” di isolamento, ma questi processi sono abbastanza lunghi. In sostanza, sarà perché ho una visione forse più a lungo termine della cosa, ma almeno in questo io vedo un processo di cambiamento in meglio.
      Il muro io lo rintraccio piuttosto in zone quali la stazione centrale, corso dei mille, quelli sì pulsanti dell’anima popolare ma ancora lasciati a se stessi, sprovvisti di una qualunque iniziativa che possa far avvicinare la gente. Penso ancor di più a borgo nuovo e allo zen, che per di più si trovano in una condizione di isolamento rispetto al cuore della città. Credo sia utopistico pensare che in una città non esistano zone più o meno degradate o mal viste; tuttavia si dovrebbe iniziare un percorso volto a inserire questi cittadini finora considerati di “serie b”.

    2. quanti ricordi…negli anni 50 in piazza Kalsa dove sono nata,quando le signorine dovevano maritarsi,si iniziava a comprare i faldoni di lana di pecora e si andava di notte alla marina(foro italico)x lavare con l’acqua delle fontanelle la lana, per poi stenderla in piazza sotto il sole cocente, tutte le donne partecipavano ad aiutare,quando si asciugava la lana si allargava con i polpastrelli e si riempivano i materassi degli sposi,il profumo del mare entrava nelle narici,si viveva molto meglio di adesso che abbiamo tutto,che tristezza rivedere dopo tanti anni dove sono nata,via Nicolò Cervello è in degrado perenne.

    3. @anna
      bellissimo il tuo ricordo, sono sincero. Però un ti siddiari, meglio ora! vado da eminflex e con 250 euro mi danno un materasso come si deve…(lo so che prima eravamo poveri, ma non per questo erano migliori i materassi fai da te)

    4. x damniel,accetto il Progresso ,ma non condivido il regresso della mia che fù città …palermo.I ricordi non si possono cancellare.

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