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venerdì 29 mar
  • Quaderno di Palermo 33

    Come che sia, quando uno si sposta alternativamente in città o in paesi diversi con lo scopo di soggiornare per un tempo indefinito, nel momento della partenza dall’ultimo luogo ormai concluso, si porta necessariamente qualcosa con sé, nonostante i dubbi iniziali che di solito lo assalgono quando si mette a pensare a quello che ha potuto “prendere” nel corso degli anni. Da una parte, uno riflette sul rapporto spaziale istaurato con il luogo vissuto, dall’altro su quello che deriva dalle persone che lo abitano e con le quali ha dovuto condividerlo e delle volte anche salvaguardarsene. Sì, adesso tocca abbandonare questo intreccio fitto di strati fermi e saldi che è la città di Palermo, così come dai suoi abitanti pure loro carichi di una venatura che serpeggia sulla pelle della loro memoria.
    In questa vita uno si muove per vari motivi, e risulta che un giorno arriva su una sponda del mondo spinto da qualcosa. E io, mi chiedo, perché sono sbarcato su questa riva del Mediterraneo? Direi che, più che per cercarla, sono arrivato a Palermo allo scopo di dare o meno conferma all’idea che ne avevo. Per esempio, una cosa sicura che mi permetterei di affermare adesso su Palermo, e che porterò via con me, è lo spirito stratificatamente isolano dei suoi cittadini. Ciò nonostante, posso dare per certo di averlo capito, afferrato, interiorizzato, io che vengo dalla terma ferma? È vero che nel percorso della mia vita ho incrociato alcuni abitanti di qualche isola, i quali sempre mi avevano lasciato intuire una maniera di essere che non era quella mia e dei continentali che io avevo conosciuto. Anzi, non mi ero mai posto in modo così chiaro la questione tra insularità e continentalità come invece lo faccio adesso, cioè, quanto in profondità lo spazio possa influenzare nell’essere umano. Come se si trattasse di una proiezione geografica del luogo dove è nato, dove vivrà la maggior parte del suo tempo, e dove con sicurezza penserà di morire, l’abitante di un’isola – ed è fuor di dubbio che il palermitano NON lo sia – si comporta proprio come una conchiglia in mezzo al mare: tende a chiudersi ma, se vuole vivere, ha l’obbligo di uscire e di esporsi. Ma più che chiuso oserei dire che come isolano l’abitante della capitale siciliana è guardingo, recondito, segreto (no, non si saprà mai sotto quanti strati sovrapposti si protegge dagli altri e, innanzitutto, da sé stesso). Perché il palermitano apparentemente è un uomo aperto, sociabile, quasi alla mano, come ho detto altre volte in questo quaderno, ma andando più in là si capisce che sotto sotto si tratta di una persona non trasparente, non definita, non “sgusciata”. Ecco, proprio come la conchiglia chiusa che prendiamo in mano sapendo che potremo soltanto ammirare la superficie manifesta del suo involucro. Ma non è proprio così, mi chiedo, con tutti gli uomini e le donne che popolano il nostro pianeta? Sì e no, mi rispondo, perché le radici di questo cittadino non sprofondano soltanto dentro la terra, come succede per la maggior parte di noi, ma affondano anche dentro il mare –non bisogna dimenticare che si tratta di un’isola e di un mare che sono stati centrali per tanti secoli. E poi? E poi, e in conseguenza con tutto ciò che è stato detto, si tratta di un cittadino siculo al cento per cento, cioè le cui vene e i cui ricordi sono intrisi da una parte da correnti di sangue eterogeneo e dall’altra da una memoria variegata che lo portano a non essere mai concreto, determinato, uno. Inevitabile non pensare in questo momento a Pirandello. Il fatto è che, con queste caratteristiche cui ho accennato, il palermitano, come abitante della capitale della sua isola, si è creato un orgoglio che delle volte non va alla pari con il suo atteggiamento. Sì, come se questa fierezza fosse tinta di disdegno, più per la città che per sè stesso, ma è solo uno strato superficiale che lascia vedere agli altri e dove esce in superficie ancora una volta questa indefinibilità come arma inespugnabile.

    Rivestimento.

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