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sabato 20 apr
  • La Morte

    Forrest Gump diceva che la vita è come una scatola di cioccolatini. Non sai mai quello che ti può capitare. E non lo sappiamo perché amiamo essere cristallizzati nella nostra bolla di sapone, un’isola felice che tiene all’ingresso i cattivi dolori.
    A volte è la strada la nemica numero uno. A Palermo, in Sicilia, ogni anno il bilancio si chiude in “negativo” e alcuni angoli d’asfalto divengono veri e propri sepolcri a cielo aperto, con tanto di foto e fiori, che divengono mete di pellegrinaggio per i parenti. Altre volte invece vedi spirare i tuoi cari in una corsia d’ospedale, vuoi perché la mala sanità è un cancro più infimo di quello che porta realmente alla fine, vuoi perché alle volte è il “momento” e non esistono medici e cure così giuste da riuscire a strapparti al destino. Altre volte ancora il carico di sofferenza viene appesantito dalla condizione cimiteriale delle città. Transeat (per il momento) il degrado delle necropoli panormite, ma neppure i morti sono tutti uguali? Trovare “u postu” al feretro ormai esanime è roba assai complessa: per questo, file di bare si susseguono accatastate dentro ai depositi dei Rotoli o del Sant’Orsola.
    Ma il dolore di chi resta non ha dignità? E che prezzo ha la dignità? In questi minuti che pesano d’anni di vita vissuta ho assistito a dolori lancinanti: madri senza figli, figli senza padri, sorelle senza fratelli, amici senza amici, nipoti senza nonni, ma anche nonni senza nipoti. Ho assistito a uomini senza librai di fiducia, fiorai, baristi, panettieri, compagni di viaggio e di scuola, professori, colleghi d’ombrellone e di scrivania, ex amori. Ho sentito «si è spento» tante di quelle volte che nonostante tutto non ho sviluppato quel cinismo che ti spinge a proteggerti dal dolore. Anche dal dolore degli altri. Perché immaginare la vita (e le vite) cadenzata da quel “senza” strozza il fiato. Eppure non c’è tempo per il fiato corto. Bisogna scrollare via la polvere dagli occhi, grattare la pelle e camminare a schiena dritta. Solo cicatrici nel cuore.
    Noi che assistiamo come spettatori al dolore altrui possiamo solo gonfiarci di parole retoriche, frasi di circostanza, a tratti persino banali. «A te che non vivi «senza» poi passa». E se non passa? Se quel dolore ti si è incollato addosso inspiegabilmente? Pensiamo sempre che le tragedie non capitino mai a noi, perché il brutto accade spesso a chi ti è vicino, anche solo per un secondo. Quando la “non Vita” ci investe siamo sempre impreparati. E la chiamo non Vita perché morte puzza solo di fine. Che brutta parole fine. Ma se non fosse davvero un punto? Magari “non Vita” è anche meglio di Vita, questo in fin dei conti è un mondo farabutto, perché dovremmo averne bisogno?
    Domande su domande che si affastellano senza precise risposte. E se smettessimo di sentirci imperturbabili? Di piangere per un brutto voto all’università o per un amore non corrisposto? Che poi arriva l’ambito 30 o l’amore della vita e tutto passa; certe cose invece non passano mai. C’è un giorno che è un attimo. E quando quell’attimo ci accoltella, preghiamo, preghiamo tanto perché chi va via da questo mondo si ritrovi in un posto d’incanto migliore di questo a tratti ingiusto, perché chi lotta per restare qui sia accompagnato dall’unione dei nostri pensieri d’amore. Perché vogliamo che perdano quel biglietto e scendano da quella canaglia di treno e tornino, tornino qui a vivere con noi. In fondo per la “non Vita” c’è ancora tempo.
    A volte mi chiedo cosa sia questa “non Vita”. E tra un punto interrogativo e molti punti di sospensione ricordo di una professoressa che ci convinse che le luci più luminose del firmamento siano il sole e la luna e le altre stelle, che grazie ad un riverbero iridescente permettono di distinguere il giorno dalla notte. Mi chiedo se il cielo possa averci messo lo zampino in tutto questo gioco di presenze-assenze. A me piace immaginare che chi lascia la sua vita terrena, si spoglia di materia e di vizi, ma non della sua essenza. Un’essenza che si veste di luce e racchiude in sé un piccolo bagliore visibile ad occhio nudo. Come una piccola scia luminosa nella volta celeste. E allora chissà perché ci ostiniamo a dire «si è spento».
    Forse è per questo che si dice addio? Un bisillabo spezzato dal dolore, ricongiunto dalla speranza. A Dio.

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  • Un commento a “La Morte”

    1. Fa sempre piacere iniziare la giornata con dei post così solari e pieni di ottimismo.
      Dove ho messo l’antidepressivo? Ah si’, e’ li’, sotto il cornetto rosso.

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