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martedì 19 mar
  • Matteo Messina Denaro: il “Diabolik” di Cosa Nostra in Casa Nostra

    A 23 anni dall’inizio della sua latitanza si arricchisce di un nuovo aneddoto la storia della primula rossa di Castelvetrano, ora accusato dalla procura di Caltanissetta di essere il mandante delle stragi di Capaci e Via D’Amelio in cui persero la vita i giudici Giovanni Falcone, Francesca Morvillo, Paolo Borsellino e gli agenti della loro scorta. Il superlatitante è stato, infatti, raggiunto da un provvedimento di custodia cautelare, emesso dalla procura nissena e notificato alla madre, che lo inquadra fra i boss di Cosa nostra che ordinarono le stragi del ’92. Dal 2008 i pm nisseni cercano di ricostruire la dinamica delle stragi dopo il pentimento del killer di Brancaccio Gaspare Spatuzza tentando di comprendere il ruolo ricoperto dall’ultimo padrino. Ma, per capire bene, bisogna fare un passo indietro nel tempo. Siamo nel 1991 e Matteo Messina Denaro ha già preso il posto del padre Don Ciccio, fedelissimo al clan dei corleonesi di Totò Riina, diventando il reggente di Cosa nostra a Trapani; nel settembre dello stesso anno si tiene un summit mafioso per decidere la morte del giudice Falcone, che sta andando troppo oltre con le sue inchieste, e a cui avrebbero preso parte alcuni uomini dei servizi segreti, il giovane boss Messina Denaro e Vincenzo Milazzo, rampollo mafioso di Alcamo e già alleato dei corleonesi. A parlare di questo incontro è, oggi, Armando Palmeri, ex autista di Milazzo, che già nel 1998 dopo l’inizio della sua collaborazione aveva raccontato dei rapporti della mafia trapanese con uomini dei servizi segreti intrattenuti proprio nei mesi delle stragi, ma quelle dichiarazioni all’epoca caddero nel nulla e, casualmente, delle copie originali di quei verbali, oggi, non vi è più alcuna traccia. Qualche tempo fa, i pm nisseni hanno passato in rassegna i pentiti della mafia trapanese e si sono imbattuti proprio nell’ex autista Palmeri che, non solo ha confermato tutto ma, ha anche arricchito la storia dei rapporti fra mafia e “antimafia” di nuovi particolari: ad uno dei summit convocati per decidere la morte del giudice Falcone avrebbe partecipato anche Milazzo, il quale gli avrebbe rivelato proprio la presenza degli 007 italiani: «C’era gente dei servizi, sono dei pazzi, vogliono fare cose da pazzi». Cinque giorni prima della strage di Via D’Amelio il boss di Altofonte, Antonino Gioè, convoca in un casolare l’amico Milazzo che cade sotto i colpi di lupara al cospetto di Matteo Messina Denaro che, 48 ore dopo, non risparmia neanche la fidanzata Antonella Bonomo che muore strangolata ed incinta di tre mesi. Sarà poi un altro pentito, Gioacchino la Barbera, a spiegare il motivo della duplice eliminazione: Milazzo si era opposto alle stragi e alla tirannia di Totò Riina e Messina Denaro, mentre la sua fidanzata doveva essere messa a tacere per evitare che rivelasse le confessioni del suo amante. Non dimentichiamo, tra l’altro, che il superlatitante di Castelvetrano non è nuovo nello scenario della morte di Falcone: pare che sia stato proprio lui, infatti, a guidare il comando di sangue che avrebbe dovuto uccidere il magistrato palermitano a Roma a colpi di kalashnikov, morte poi rimandata per il contrordine arrivato inaspettatamente in cui si stabiliva che l’assassinio doveva avvenire in Sicilia e in maniera eclatante. Inoltre, secondo le dichiarazioni di Gaspare Spatuzza, dietro quella strage non ci sarebbe sono la mafia.

    La storia di Matteo Messina Denaro e della morte di Falcone e Borsellino, anni dopo anni, si infittisce di misteri e di volti senza nome che si muovono nell’ombra e che sembrano garantire un inquietante equilibrio nei rapporti deviati fra mafia e “antimafia”, rapporti tessuti nel tempo e che fanno da corollario nella storia delle latitanze. Certo è che di latitanze più o meno dorate, ma certamente protette, la storia d’Italia è piena: da Riina a Provenzano, passando per Lo Piccolo, fino ad arrivare al “Diabolik” di Castelvetrano. Storie diventate quasi leggende. Cambiano i volti e magari i luoghi di queste vacanze “allungate” ma le domande rimangono sempre le stesse: chi manovra queste latitanze e cosa si vuole proteggere dietro una mancata cattura? È davvero possibile che un latitante si muova fra una città e l’altra senza che nessuno veda o senta nulla, o bisogna pensare che fra gli amici di un fantasma in carne ed ossa ci sia qualcuno che indossi la divisa dello Stato? D’altronde il pensiero sarebbe più che legittimo: Totò Riina latitante per quasi mezzo secolo si nascondeva in una villa a Palermo, Bernardo Provenzano (detto Zu’ Binnu) latitante per 43 anni è stato catturato in una masseria alle porte di Corleone, mentre Salvatore Lo Piccolo che si era goduto 25 anni di beata latitanza si trovava in una villetta tra Cinisi e Terrasini. E Matteo Messina Denaro? Dov’è l’ultimo padrino della stagione stragista che viaggia e vola indisturbato fra i paesi del mondo senza lasciare alcuna traccia?

    La sua latitanza risale alla stagione delle bombe del 1992 – 1993 durante la quale Cosa Nostra dissemina sangue e terrore col preciso obiettivo di colpire e ricattare lo Stato al fine di condizionarne le scelte di politica penitenziaria e porre le condizioni per una trattativa Stato – Mafia. Per tutte quelle stragi, sono risultati colpevoli fino in Cassazione capi mafia del calibro di Totò Riina, Bernardo Provenzano, i fratelli Graviano e Leoluca Bagarella, oggi tutti in carcere con più ergastoli da scontare al regime speciale del 41 bis, il famoso “carcere duro”. Tutti tranne lui: Matteo Messina Denaro, condannato all’ergastolo per le stragi di Firenze, Milano e Roma del ’93 e di cui non si sa più nulla proprio dal 5 giugno dello stesso anno, data della sua unica e ultima lettera in cui, col cuore a pezzi, lascia la fidanzata dell’epoca per via di quel mandato di cattura emesso nei sui confronti e che ne faceva ufficialmente un ricercato. Dopo queste righe il “Diabolik” di Cosa Nostra sparisce nel nulla, come un soffio di vento. Di lui solo vecchie foto risalenti a prima degli anni novanta e identikit su identikit. Eppure, tutti lo cercano: le Forze dell’Ordine, i Corpi Speciali, la Procura di Palermo ed i Servizi Segreti. Su di lui pende persino un mandato di cattura internazionale. C’è chi dice che trascorra lunghi periodi nella sua città natale, Castelvetrano, chi dice che sia di casa in Europa e chi parla di viaggi in Centro America per risolvere personalmente “camurrie” insorte nel traffico mondiale di cocaina. Questa latitanza è ormai diventata il principale grattacapo di tanti investigatori e, come in ogni gioco di guardie e ladri che si rispetti, sulla sua testa pende un “WANTED”: la taglia di 1,5 milioni di euro che sarà la ricompensa per chi fornirà informazioni utili alla sua cattura. Sarebbero, dunque, 23 anni di beata latitanza trascorsa fra uno Stato e l’altro, rimanendo fedele alla raffinata e rivoluzionaria tecnica di comunicazione criminale dei “pizzini”, inventata dallo zio “Binnu”.

    Bisognerebbe chiedersi, a questo punto, quali siano i “tesori” che gli garantiscono una libertà dorata. Per gli inquirenti è l’ultimo boss di Cosa Nostra che potrebbe conoscere i segreti della stagione stragista. Secondo le cronache, Messina Denaro, avrebbe ereditato un archivio di nomi e ricatti contenente i segreti di Cosa Nostra durante la Prima Repubblica e gli inizi della Seconda, archivio che sarebbe stato presente nel covo di Riina ma che i Ros, nel giorno della sua cattura, o per disattenzione o per un errore di comando, non perquisirono. Così, a far lo sporco lavoro ci pensò, scrupolosamente, Cosa Nostra. Sarebbe solamente il peso di questo “tesoro” a garantirgli una libertà che sembra non avere mai le ore contate? Eppure, qualcosa di strano c’è. La sua vita non è consumata tra verdura, formaggi e campagna come quella di Provenzano, ma al suo passaggio sembrano aprirsi le porte dorate delle sotterranee stanze del potere. Il “nostro Diabolik”, infatti, è considerato dalla rivista americana Forbes «il quinto criminale più ricco del mondo»: amante del lusso, grande collezionista di Rolex e con una task force di imprenditori e prestanome a suo servizio. In effetti, gestirebbe un patrimonio di miliardi e miliardi di euro; per chiarirci, secondo gli inquirenti e le svariate testimonianze, molte attività economiche della Sicilia Occidentale sarebbero state da lui gestite: dal vecchio marchio Despar all’ex villaggio Valtur di Favignana, dall’appalto della funivia Trapani – Erice al parco eolico nel trapanese. Tra l’altro le cronache parlano anche di affari nella ristorazione, nello smaltimento dei rifiuti, nelle aziende vinicole e nei cantieri navali; secondo le stime nei vari blitz sarebbero stati sequestrati beni per 3,5 miliardi di euro. Nonostante nella rete degli inquirenti siano caduti anche familiari molto stretti, secondo il procuratore aggiunto di Palermo, la dottoressa Principato che segue le indagini sul superlatitante, Messina Denaro usufruirebbe dei soldi e dei legami che il clan può offrirgli per continuare liberamente a tessere rapporti con soggetti del mondo politico ed imprenditoriale. La sua latitanza dorata, ha spiegato la dottoressa, sarebbe garantita anche da protezioni ad altissimo livello che si muovono fra borghesia mafiosa, massoneria deviata e salotti politici. Una storia già letta quella della latitanza protetta che diventa, inevitabilmente, storia di catture mancate, di depistaggi e di soffiate. Storia di uno Stato che arriva (o che vuole arrivare) sempre un attimo dopo o, addirittura, anni dopo.

    Non sono di certo mancati i tentativi di cattura seppur, casualmente, finiti male. Come in ogni storia di buoni e cattivi, di guardie e di ladri, i panni di “Ginko” (eterno rivale di Diabolik) sono stati vestiti dal pubblico ministero Roberto Piscitello e dal Maresciallo dei Carabinieri Saverio Masi. Il superlatitante di Cosa Nostra, sensibile al fascino femminile, scelse come sua amante prediletta Maria Mesi. Nel 1996, arrivò una segnalazione: a Bagheria, in un appartamento viveva la nostra “Eva Kant”. Iniziò il pedinamento e il PM Piscitello individuò l’appartamento in cui i due si incontravano. Era vicinissimo alla cattura del boss quando, improvvisamente, non venne registrato più alcun movimento e, il criminale, sparì nuovamente nel nulla. Soffiata o mera casualità? Intanto, la Eva Kant siciliana per avergli dato ospitalità durante la latitanza è stata condannata per favoreggiamento. Mandiamo avanti le lancette del tempo fino al 2002 quando il maresciallo Masi, sempre a Bagheria, intercetta il latitante. Pedinando il fratello della Mesi giunge ad un casolare, torna in caserma, informa i suoi superiori che, però, non fanno alcun accertamento. Nel 2004, c’è un altro incontro ravvicinato fra i due. Lo scenario è sempre Bagheria, Masi evita per un soffio un incidente con un’auto che gli taglia la strada. Il maresciallo s’accorge che alla guida c’è Messina Denaro, lo segue fino ad un cancello dove ad attendere il latitante c’è una donna. Torna in caserma e chiede ai suoi superiori di poter proseguire le indagini ma, secondo la sua denuncia, gli viene chiesto di omettere dalla sua relazione il nome della donna e del proprietario della villa e, a distanza di anni, il maresciallo scopre che quella relazione non venne mai trasmessa in procura.

    Riflettendoci, verrebbe da chiedersi se si stia dando davvero la caccia all’uomo misterioso o se non sia tutto “teatro” in cui, però, a cadere nella trappola della finzione sembrerebbero essere quelle “guardie” che credono ancora nella vera lotta alla mafia. Sembra tutto un fiorire di ombre, veleni, depistaggi, misteri ed interrogativi. Sembra, appunto. Perché mettendo in ordine i dati e incrociando i fatti tutto diventa subito chiaro e non resta che riavvolgere il nastro e vedere il film per intero. Un film che racconta la storia di un criminale, che siede al tavolo delle trattative per la gestione economica e politica di un Paese, che viaggia e vola indisturbato per occuparsi dei suoi affari, e di uno Stato che veste i panni dell’antimafia omettendo, in certe occasioni, proprio il prefisso “anti” davanti alla parola mafia. È la storia di uno Stato che fa a cazzotti col suo stesso essere stato di diritto, uno Stato che ha venduto al miglior offerente il suo più alto senso di giustizia e che non sembra disposto a rivelare i volti dei suoi “mandanti” più eccellenti, nomi e volti che probabilmente sono destinati a restare per sempre custoditi negli archivi del potere e della memoria. La storia della mancata cattura si ripete e si ripeterà fin quando dall’alto, qualcuno, non deciderà che è arrivato il momento di porre fine alla sua latitanza dorata, sperando che non ce lo consegnino da morto, come avvenne per il padre “Don Ciccio”, anche lui latitante, che venne ritrovato morto in una campagna, vestito di tutto punto e pronto per il funerale (come a dire “se non si è riusciti a trovarlo da vivo e da latitante, da morto ve lo consegniamo”). Alla luce dei fatti svelati ed omessi, di documenti spariti nel nulla, di volti anonimi che tornano puntualmente nei misteri italiani inestricabili, di depistaggi enigmatici e di un presente che si mescola con un passato dai contorni indefiniti riportando al cospetto delle coscienze le malefatte di uno Stato, si può davvero pensare di vivere in un Paese la cui storia non è una storia criminale? Si può dire che sia veramente giusto un Paese che addita, puntualmente, i suoi uomini migliori ponendoli sul banco degli imputati e che omette volontariamente di scavare dentro sé stesso per non dare un nome a quei volti che hanno deciso della vita e della morte di tanti uomini? È obiettivo questo Paese che si adira e si preoccupa di un attentato terroristico in una qualsiasi città del mondo, e che non ricorda di convivere da almeno 150 con un altro tipo di Isis, detta Cosa Nostra?

    Oggi,il nome di Messina Denaro risuona ancora più forte se accostato a quello del magistrato più a rischio d’Italia, Nino Di Matteo. Il magistrato che indaga sulla Trattativa Stato-Mafia e a cui Riina vorrebbe far fare la “fine del tonno”. A tal proposito, sarebbe stato proprio il superlatitante di Castelvetrano a raccogliere l’ordine di morte del vecchio boss e ad ordinare il reperimento di 200 chili di tritolo per far saltare in aria il magistrato e la sua scorta. Se davvero così fosse, sarebbe ancor più facile capire quale sia il terzo “tesoro” che permetterebbe all’ultimo padrino di godere del profumo di una (a)dorata libertà. Ma questa è un’altra storia. O quasi.

    Palermo, Sicilia
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