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martedì 23 apr
  • Parco “Ninni Cassarà”

    Vite senza speranza

    Mattia ha 10 anni, era un bambino come tanti altri.
    Gli insegnanti lo ergono a modello perché nonostante le condizioni di salute è il primo della classe.
    Trascorre in un ospedale del nord Italia una settimana al mese, ma i compiti li fa lo stesso.
    È una famiglia distrutta, Mattia è figlio unico.
    Totò, il padre, sta uscendo pazzo; i medici sono stati chiari, la rarissima forma della malattia diagnosticata al figlio non da speranze ne molto altro tempo.
    Il destino si è accanito contro di loro, mamma Agata ha scoperto da poco di avere la stessa patologia del figlio in fase embrionale.
    «Che strano» hanno detto i medici chiedendo possibili fattori di rischio comuni a Totò; lui ha scrollato le spalle.
    Da un po’ è fuori di testa, chi non lo sarebbe al suo posto?
    L’ultimo ciclo di chemio subito da Mattia non ha sortito gli effetti delle altre volte, Totò ha un triste presagio.
    «È finita» pensa, con la morte nel cuore.
    Agata tenta di farsi coraggio, di nascondere a se stessa ed al figlio l’atroce verità, ma Mattia l’ha capito; anche se è imbottito di farmaci ha capito perché alla madre cominciano a cadere i capelli.
    I continui viaggi rendono tutto più difficile, se gli ospedali siciliani funzionassero non ci sarebbe questo calvario nel calvario.
    Totò e Agata non possono contare nemmeno sull’aiuto dei familiari; la loro non è una famiglia qualsiasi, i Macaluso sono mafiosi di lunga data.
    Da quando è stato ucciso Rosario, padre di Totò e capo della famiglia, quante cose sono cambiate; gli amici sono diventati nemici e vogliono tutto quello che hanno.
    Totò ha guardato impotente i propri fratelli insultati e poi pestati a sangue da sciacalli che non avevano mai contato nulla nell’organizzazione, poi ha assistito impotente al loro arresto anche se, in fondo è stato meglio; almeno li dentro non c’è pericolo che li ammazzino.
    Gli altri parenti e gli amici, quelli che elemosinavano un posto di lavoro, non ne vogliono sapere più niente. Che vigliacchi!
    Ora sono soli, completamente soli.
    A Totò un amico è rimasto: il rimorso. Ogni volta che mette i piedi sulla scaletta dell’aereo comincia a pensare cose che per tutta la vita non lo avevano mai nemmeno sfiorato.
    Senza la malasanità Mattia non guarirebbe, ma almeno non vivrebbe la sofferenza di questo esodo forzato.
    Il fatto è che gli ospedali non funzionano per colpa della mafia, o per meglio dire di quel groviglio d’interessi politico mafioso che è alla radice del problema.
    Quanti primari aveva fatto nominare la famiglia Macaluso? Tanti, tantissimi.
    Costoro sono stati manovrati per pilotare gli appalti, gonfiare le spese e dirottare una pioggia di milioni sulle famiglie; ma di questa grande ricchezza a Totò non è rimasto nulla, hanno sequestrato tutto.
    E poi a che servono i soldi, le proprietà, quando tuo figlio sta così?
    Gli stessi medici amici degli amici hanno allargato le braccia.
    «Totò, tu a tuo figlio lo devi portare a Milano. Lo sai che qui le cose non funzionano, proprio tu lo dovresti sapere. Provenzano non se ne andò a Marsiglia? E tutti gli altri boss non se ne vanno fuori? Se avveleni l’acqua devi sapere che non devi berla».
    Parole pesanti da digerire.
    «Se mio padre era vivo così avresti parlato? Mi dovresti baciare le mani».
    Ma i tempi sono cambiati, i Macaluso non contano più nulla; lo sanno pure i medici che ora fanno affari con le altre cosche.
    Il meccanismo è semplice e va avanti da anni; ogni appalto è truccato, manipolato, gonfiato ed il bottino illecito viene spartito tra gli uomini con la coppola e quelli in giacca e cravatta.
    Una volta c’era una ben precisa corrente politica che camminava a braccetto coi padrini, ma da un punto in poi sinistra e destra si sono seduti allo stesso tavolo per dividere la torta.
    Non a caso un pentito ha battezzato questo sistema “’u tavulinu”.
    Totò lo sa benissimo che la propria famiglia era ai vertici di questo sistema; sprofonda nella poltrona, un mostro invisibile gli sta divorando l’anima.
    Si sente in colpa, per Mattia e tutte le persone costrette a farsi curare fuori dalla Sicilia, perché questo aggravio di sofferenze potrebbe essere evitato.
    Ma non è solo questo, uno negli ospedali entra vivo ed esce morto perché ci sono i medici piazzati dai boss o nominati dalla politica per indebolire la cosa pubblica a vantaggio delle cliniche private gestite pure loro dalla mafia: è un circolo vizioso.
    Finora non era importato, i morti erano numeri; uno, due, dieci, cento, mille.
    Numeri che fanno numeri. Centinaia, migliaia, milioni di euro da spartire.
    Ma Mattia non è un numero, è fatto di carne; “sangue del mio sangue” pensa Totò mentre guarda il suo piccino addormentato.
    Un conto è mandare a morire un estraneo, un altro vedere tuo figlio combinato così.
    Le palpebre sono pesanti, sembrano macigni; senza accorgersene Totò si addormenta di un sonno che sembra realtà.
    Rivede se stesso da giovane, forte e spensierato; all’epoca era autotrasportatore nella ditta di famiglia, nessuno lo costringeva a farlo ma a lui piaceva.
    Suo padre gli diceva che non doveva lavorare come un picciotto qualsiasi; poteva starsene in ufficio con una gamba sull’altra oppure girare per gli incassi.
    Ma lui no! Gli piaceva girare col camion per i paesini, voleva vivere come uno qualsiasi, o almeno farlo credere.
    Si rivede mentre porta il camion, col braccio sinistro abbronzato fuori dal finestrino, la canottiera blu intrisa di sudore ed un cappello di paglia consunto sulla testa; Mattia è appena nato, c’è una sua foto sul parabrezza.
    La famiglia gestiva la nuova frontiera del business che prometteva soldi facili; a Napoli si stavano arricchendo con questo sistema.
    Smaltire rifiuti tossici è un lavoro facilissimo se hai le coperture giuste; ed i Macaluso tenevano la politica in un pugno.
    C’era una grossa area alla periferia di Palermo, dovevano farci un parco pubblico ma gli assessori all’urbanistica che si sono succeduti negli anni si sono guardati bene dal realizzarlo; d’altra parte erano pagati dalle famiglie per questo, cioè per non far nulla.
    Per due o tre anni Totò ha sversato in questi terreni ogni sorta di veleno; tutto è stato ricoperto ovviamente, un lavoro pulito.
    Poi gli sbirri drizzarono le antenne, gli ultimi carichi Totò non sapeva dove metterli ma intanto quella roba doveva sparire perché chi pagava pretendeva.
    Totò ci pensa come se fosse ora; era ancora più facile.
    Avevano un terreno appena fuori città, gli ultimi carichi finirono laggiù al riparo da occhi indiscreti.
    Il papà di Totò aveva la terza elementare, non sapeva manco cosa fosse la chimica, decise di costruirci una villetta su quel terreno.
    E la fece bella, col tetto spiovente, la piscina e un giardinetto dove Mattia potesse giocare.
    Scavarono un pozzo abusivo per l’acqua, i mafiosi non pagano bollette.
    Mattia correva a perdifiato su quel terreno, sudava e gli veniva sete; e quando aveva sete urlava a mamma Agata «Sto morendo dalla sete» e la mammina apriva il rubinetto, riempiva una bella bottiglia di acqua fresca e lo faceva bere.
    Com’era buona. «È più buona di quella di Palermo» gridava Mattia.
    Quanto tempo è passato, Totò il camionista non lo fa più, tira una brutta aria.
    Il nuovo assessore è un cretino ecologista, figuratevi che quei giardini alla periferia est di Palermo li ha recintati e ci ha fatto un parco; lo hanno chiamato parco Ninni Cassarà.
    Neanche il tempo di aprirlo e lo hanno chiuso perché pare ci sia l’amianto dentro, quella robaccia che inquina le falde acquifere.
    Chissà quanti bambini si sono già avvelenati, chissà quanti pagheranno il conto della vigliaccheria mafiosa.
    Totò ha sprangato il villino ed ha chiuso il pozzo, ma questa storia non l’ha raccontata a nessuno, forse per questo gli rode dentro l’anima.
    «Papà stai dormendo?» «No ho chiuso soltanto gli occhi».
    «Quando torniamo andiamo al villino?» Certo che ci andiamo».
    «Signore e signori il comandante vi invita ad allacciare le cinture di sicurezza».
    L’aereo si impenna e plana su nuvoloni carichi di pioggia, li oltrepassa puntando verso il sole che oggi emana raggi accecanti, non vi è riparo per chi deve fare i conti con la propria coscienza.

    I cancelli del parco “Ninni Cassarà” di Palermo ad oggi rimangono chiusi, muta testimonianza di un periodo della storia siciliana che è nostro dovere ricordare per creare una nuova coscienza nelle generazioni future.
    La mafia non è solo pizzo, i suoi tentacoli arpionano in mille modi diversi stritolando gli uomini e le proprie vite in una morsa fatta di vigliaccheria e soprusi di cui tutti paghiamo il conto.
    Quello più salato lo pagano loro, i mafiosi e le loro vite senza speranza.
    Occorre parlarne, scriverne, farne poesie, canzoni, film; chi può lo faccia.
    Nessuno rimanga in complice silenzio.

    Palermo, Sicilia
  • 4 commenti a “Vite senza speranza”

    1. Semplicemente bravo!

    2. Ammirevole .

    3. Bravissimo da applausi!!!!!

    4. Dannatamente bellissimo….
      Tristemente vero….

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