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martedì 19 mar
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    Palermo in mutande all’appuntamento con la storia

    Caro J. Wolfgang Goethe,
    anche ai vostri tempi si usava dire che agli “appuntamenti con la Storia” bisogna arrivarci decorosi, ben preparati, e non in pigiama o in mutande? Quindi a Palermo oggi secondo Lei, c’è davvero il Nuovo che avanza, o il Morto che afferra il vivo, quando sindaci smandrappati si riciclano per stanchezza collettiva, nella mancanza tragica di “alternativa”? Quando Lei era in gioventù, è stato molto felice della gita al capoluogo tout port ma oggi sopravviverebbe a una ulteriore capatina, e soprattutto riuscirebbe a scriverci qualcosa senza farsi incenerire da cittadini e giornalisti nativi, prima di rientrare a Weimar? Così tra imbarazzo e disillusione capita di dover parlare di città inabissate ma convinte del contrario, in cui le misure antirapina si applicano persino alle edicole votive: l’occasione è un articolo, Palermo capitale della cultura 2018. Basta con le liti, raccogliamo la sfida, agito mutuando dal lessico calcistico, poi arrivato fino al politichese, con Berlusconi e Renzi, e adesso fin giunto qui, a parlare ancora di ‘lanciare’, ‘raccogliere’, ‘pescare’, ‘tirare’ – e chissà che altro – tenzoni. Allo scritto pubblicato sul Corriere, è conseguito un trabocchetto ecumenico che sollecitava sui social a ‘farsi interpretare’ da lettori-allocchi, scopo del gioco comprendere il possibile e implicito schieramento celato, che invece era proprio lì esposto come pomodori a seccare al sole. Ma non sarà che il banale no or yes del “pessimismo vs. ottimismo” è un aut aut fantoccio e furbetto, per occultare quello più veritiero del “realisti vs. campanilisti interessati e/o spaventati” oppure “apoti” vs. “accecati dal mito del capoluogo di provincia”? Stimatissimo Goethe, Lei riuscirebbe a immaginare una chiusura d’articolo più qualunquistica e arresa di «quando i palermitani smetteranno di accapigliarsi fra favorevoli e contrari, rischiano di ritrovarsi a vivere in una città che avrà ancora la sua zavorra di munnizza, ma sarà almeno un po’ migliore di com’era»?, cioè un abbraccio della rassegnazione allo scatafascio pressistente, invitando a conviverlo insieme a possibili migliorie? E potrebbe non servire a molto la virtù televisiva chiamata ‘resilienza’ – attitudine a trarre il meglio dal peggio – se implicherà minimizzare questo ‘peggio’ a favore dei noti controfattuali borbonici, o a sostegno dei feticci isolani più bozzettistici del «come noi, nessuno!», l’eredità Classica, il calore, il teatro dei pupi, l’architettura normanna e i mercati storici, il mare, il sole mediterraneo, l’Humanitas e Pietas, la pasta allo scoglio e il clima mite tutto l’anno e il pesce fresco.

    Però se lo sguardo si concentra, si avvertirà in città la riduzione attuale degli interessi e delle tematiche a pochi dati e apporti ripetitivi e fissi, in cui scompare strategicamente la calamità disoccupazione. Per scaltrezza, si moltiplicano i faretti di speranza che risultano però sempre più patetici, vista la tradizionale incapacità mediterranea a mutarli in risultato empirico, e sono molti i dubbi circa il beneficio effettivo degli influssi positivi ‘stranieri’ che periodicamente nella storia si sono riversati su una popolazione tendenzialemnte vampiresca e distruttrice anche dei rami su cui si appollaia. Supereroi, sceicchi, mecenati, benefattori, guru, petrolieri, tutti qui per comprare o ristrutturare o far ‘rinascere’ qualcosa, salvo poi scoprire che queste piccole svolte o resurrezioni sono sempre a favore di un minuscolo circolo o conventicola avida già prenotata e quindi non ‘incideranno’ macroscopicamente nel benessere (occupazionale, indi economico e viceversa) di una collettività. Chissà come si scriverà un articolo sulle sorti di Palermo. Senz’ombra di alterigia neocoloniale? Con ipocrisia, affetto, disincantata ironia, gattopardite, irrisione, compassione, moralismo? E quale e quanto bon ton o indulgenza forfettaria impone il DPPC (Dolce Pensiero Politicamente Corretto) del giornalismo culturale locale? Sarà poi ‘mondano’ o ‘elitario’ chiedersi come mai tanti angoli pittoreschi e degradati di Palermo ricordano quell’Italia del dopoguerra, tutta da ricostruire? In terra di permalosità così suscettibile, sarà più biasimevole e indesiderato il turista indignato che fa ‘paragoni’ con altre città o il viaggiatore relativista boho-chic a bagaglio leggero, che dice sempre «amazing pitorescou!» e non si tira indietro neppure davanti ai pargoletti scalzi sulle deiezioni canine, a pochi metri dalla cartolina perbene di piazza Politeama? Ragazzi (di vita, di morte?) sempre in giro a tutte le ore, nella Sicilia che ha il più alto livello di dispersione scolastica in Italia, con più di un ‘picciotto’ su quattro fermo alla licenza media.

    Promontori infiniti di degrado e grigiore in centro storico, ottimo per turismo sadico e guardone. Cortiletti e angolini dove non ci sta neanche un’aiuola di verdure, con poveri cavalli smunti e cani inferociti da drogare e sfruttare per corse e combattimenti clandestini, stipati tutti insieme in microstalle; infanti che corrono in pannolino (altro che Germi, Rosi, Castellani e Zavattini messi insieme!) tra percolato e immondizia; zollette di terra con panchine o sedute-lapide molto squallide, scivoli arrugginiti a garanzia tetanica, cavi elettrici a tonnellate e a vista ovunque, annodati tra macerie e voragini; cemento male armato e abbandonato, lurido, il tutto giustificato e approvato dalla Commissione per il Romanticismo del Pittoresco che convoglia bruttezza e orrori dell’abbandono nel pittoresque charmant per non girarsi dall’altra parte, perché troppo doloroso… Ma poi, a parlare così tanto di cultura dove non c’è Lavoro, non si farà la figura delle Donne Prassede o, peggio, dei Don Rodrighi? Disoccupazione eccome, tra siderurgia passiva, zombie stralunati e umanisti frustrati. E non è per spostare sempre oltre il ‘tema’: il lavoro è ‘il tema fra i temi’, il gene d’ ogni ipotesi di svezzamento e progresso per città in via di sviluppo come Palermo; e invece neppure mai una parola su questo, tentando di rincoglionire e distrarre con i festival e le fiere o le kermesse libresche nelle ville pubbliche, con gli stilisti, fiere itineranti ‘del contemporaneo’, con la complicità di un giornalismo locale visibilmente autoriferito, ‘interessato’e rispettosamente ‘integrato’ alle esigenze dei notabili. Intanto che il tempo passa e si pensa che Manifesta resusciterà i morti, si scrivono articoli giocondi su eventi mirabili.

    «Il Cibo rinnova i popoli e ne rivela la vita!», a guardare l’asse che connette piazza Verdi con la stazione centrale. Via Maqueda, la strada storica di ataviche eleganze oggi è risolta in caricatura cheap di ‘boulevard’ o ‘street’, immiserita da una parata violenta di business per food and beverage di terza scelta, con sequenze interminabili di fritto-store, gelaterie sintetiche, “All 1 Euro”, panino-speed con dance&techno a tutto decibel alternati a consunzioni architettoniche e “vendesi” a ripetizione. Il tour nella Capitale avanza, tra tetti in sfacelo, piazzette storiche come deposito cassonetti, scheletri cementizi incompiuti per mancanza di soldi, calcestruzzi à la diable, recipienti blu o di eternit e antenne paraboliche che schiacciano il paesaggio, ecomostri abusivi in attesa di tritolo, graffiti-delitto anche sugli edifici o aree monumentali. Sempre tra gli sventramenti e i ‘vendesi’ casette basse poi crollate e implose dentro, dove cresce ormai la vegetazione per mancanza di ogni manutenzione e neanche occupabili da squatters ancora più miseri, guano di piccione sparso su portoncini nei pressi di auto rubate con vetri scrupolosamente sfondati. Scatafasci di architetture effettivamente remote, e molto rovinate. Colpi d’occhio dove ci vorrebbe il più generoso cuore di mammà per riconoscere le tracce di una remota bellezza. Sarà Cultura, anche così? E cioè sarà più tragressivo o innovativo un senso civico ammantato di ‘lodevoli inziative’ rigorosamente ‘dall’alto’, come il teatro in piazza a un euro per il lumpenproletariat, proiettato su maxischermo come ai mondiali, o le provocazioni antisistema delle rassagne cinematografiche indipendentissime off-off –col solito Essai di registi ‘scomodissimi’ e ‘fuori dal coro’ per serate dissacranti- ma sempre ‘dipendentemente’ sovvenzioni elemosinando, lamentandosi del ‘fifty fifty’ negato dalle amministrazioni in carica?

    Allora, scarsa fiducia inevitabile nelle piccole speranze urbane, di anno in anno invalidate dalla realtà e dalla praxis come le aperture e chiusure lampo di fondazioni e ‘palazzo questo’ e ‘palazzo quello’, presto o tardi smantellate o desertiche, destinate all’insignificanza locale o internazionale. Una città in cui a tutt’oggi, sia nel tardo Ottocento di Depretis che nel dopoguerra di De Gasperi, «dobbiamo penare non poco affinchè la macchina proceda tra i vitelli, i giumenti, i maiali, e poi tra i vasi, le anfore, le stoviglie e le altre mercanzie esposte all’aperto», nell’occupazione violenta e permanente del suolo pubblico. Non più anitre e capre o buoi, ma distese di fruttaroli, materassi, stracci, reti ortopediche, tavolini, armadi bancarelle di mutande e canottiere, buche perenni, nuove voragini e pattumi irremovibili. Palermo post-neorealista o pop-cinica, con la sua piazza Verdi e l’area d’ingresso al gioiello di Basile, il teatro Massimo, convertita in campo di calcetto teppistello come nelle più povere e degradate cittadine coloniali del Sudamerica. Nei paraggi, tollerato dalle forze dell’ordine, prepotente bivacco di ragazzetti zozzi e stracciati a centinaia, birramuniti già alle 4 di pomeriggio e che dicono solo «merda, suca, fuck e shit», tracciando ovunque cazzi e vaffa, prediligendo devastazioni, abiezioni come farla sul marciapiede davanti a tutti. A spasso tra le aree più antiche, illegalità diffusa e sistematica rifilata e vissuta per colorismo e folklore, a colpi di caterve di ambulanti che occupano abusivamente il suolo pubblico lungo file e file di poltrone e divanetti, seggioloni usati e lerci, catafalchi, guanciali, ciucci di seconda mano, culle, porte divelte, sedie, tavolini, invadendo carreggiate secondo il più galante costume suk-sudista «ue’ compà, la strada è mia, e chemmenefott’àmmè!». L’aria che si respira per quanto riguarda il ‘tessuto culturale’ legato a ‘eventi’ è pesante, forse per il morbo della Vecchia Solfa e dalla moltiplicazione di trionfalismi senza riscontri e autoproclamazioni seriali. E sembra troppo presente quel sentore di arraffo full time verso l’unico osso per troppi cani, nella contesa ferocissima e strategica di ‘nuovi spazi’, attenzioni, tempi e consensi di là da venire, anche insignificanti, tra giovani mezze-calze, canizie incattivite, facce note e ‘amici al bar’, nel comfort di una torma che si autosostiene come i pezzetti del domino prima di crollare.

    Fermento culturale? Altro che Drouet, Rigault, Marat, Danton o carboneria, sommosse e rivoluzioni nei bugigattoli! Qui niente contrapposizioni reali: una o due librerie al massimo, o due-tre gallerie, amalgamano borderlines e cadetti, lowbrow e highbrow, accentrando completamente il ‘top’ degli assembramenti artistici e culturali ufficiali; così tutto ‘succede’ solo in aree deputate (e pensare che Ciprì e Maresco erano un tempo il massimo dello scabro, e ora sono già una carezza che non fa neppure solletico). Sarà questa ristrettezza di spazi e idee a ostacolare la nascita del presupposto ‘basic’ di ogni nascita o rinascita culturale, cioè il vero antagonismo tra conformism e undergroundness, come usa nelle capitali culturali come Berlino, New York o Parigi o Londra? Idealismo borbonico vs. illuminismo asburgico, dove il secondo perde sempre come uno scemo, qui al Sud, affossandosi anche per i ben noti escamotage retorici (relativismo opportunistico-oltranzista del ‘tutto il mondo è paese’, in cui si relativizza sempre il male indigeno mentre i ‘fattori positivi’ e le eccellenze, stranamente, sono sempre ‘one and only’). Dice l’adagio meridionale-zen: «La strada certo è lunga, non sarà diritta, ma di sicuro è stata intrapresa»… Alla faccia della Broken windows theory! Signor Goethe, Lei crede ci sarà mai stata a Palermo un’epoca felice, una vita piacevole e senza approssimazioni, in cui non trionfavano i rattoppi reazionari dei «meglio così che niente»?

    Palermo
  • 3 commenti a “Palermo in mutande all’appuntamento con la storia”

    1. Quanto vano annacamento e quanta propaganda da parte di chi amministra…

    2. Brava, ottima scrittura.

    3. Si scrive aut aut, non out out: è latino.

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