Il paese era quello che era e Mariannina l’aveva capito subito, l’autunno in cui diventò picciotta. C’era un solo bar, un barbiere (che quando serviva era capace pure di cavare i denti, con certe tenaglie grosse e lorde) e la culonna, una specie di fontanella (senza l’acqua) attorno alla quale nelle sere d’estate si riunivano due o tre vecchi a fumare e scambiarsi ricordi di quando partirono soldati o, più spesso, a stare muti e a murmuriarsi tra i denti. Poi, sempre nell’unica strada del paese, c’era una putìa che vendeva sale, zucchero, sigarette sfuse, marche da bollo ed era di proprietà di donna Rusina che era pure la mammana del paese. Tutti i carusi nati negli ultimi vent’anni erano passati dalle sue mani. Pure Mariannina aveva aiutato a nascere. Era un venerdì e il commento laconico del padre, dopo che sua moglie aveva trascorso tutta la notte a lastimarsi sudando e pregando Sant’Anna, mentre la muntagna tremava che pareva dovesse partorire lei, era stato il solito “nuttata persa e figghia fimmina” e se ne era andato a lavorare in campagna. L’avevano chiamata Marianna coi nomi di tutte due le nonne e la mammana aveva esclamato sollevandola “sì vinnirina, niente ti può succedere”. E infatti niente, le successe ma non nel senso che spirdi e lupi mannari non la potevano nuocere, come si dice per tutti quelli nati di venerdì. Continua »
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