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martedì 19 mar

Archivio per la categoria 'Quello che resta nel taccuino'

  • Libertà di stampa?

    Sul bel blog di Salvo Toscano, trovo le pezze d’appoggio per approfondire un tema caldo. Eccolo servito. “Indagati per favoreggiamento aggravato a Cosa nostra per aver pubblicato una serie di articoli sui “pizzini” e sull’archivio sequestrato ai boss Salvatore e Sandro Lo Piccolo. La Direzione distrettuale antimafia di Palermo voleva intercettare le utenze telefoniche dei giornalisti di “Repubblica” Francesco Viviano ed Alessandra Ziniti e, per questo, dopo aver notificato loro un avviso di garanzia per violazione di segreto d’ufficio e aver perquisito la redazione di Palermo e le loro abitazioni, e disposto il sequestro dei loro computer e di quello del capo della redazione Enzo D’Antona, ha deciso di aprire un altro fascicolo riservato, con l’ipotesi di reato aggravata dall’agevolazione “oggettiva” e “soggettiva”, cioè intenzionale, di favorire Cosa Nostra. Ma il gip Maria Pino ha rigettato la richiesta, ritenendo insussistenti tanto l’ipotesi di reato quanto gli estremi per eseguire l’intercettazione. La tesi secondo la quale la pubblicazione dei “pizzini” avrebbe favorito Cosa nostra, è stata sostenuta dal pm Francesco Del Bene anche davanti al tribunale del riesame, dove si discuteva il ricorso presentato dai difensori di “Repubblica” contro il sequestro e la clonazione degli hard disk dei computer dei giornalisti. Continua »

    Quello che resta nel taccuino
  • Molliche

    Chi mangia fa molliche e pazienza. Ma cosa può capitare se le molliche sommergono la tavola?
    Quando ho cominciato il mio lavoro, il caso e la scelta mi hanno spinto a raccontare certe storie disperate. Qualche collega stupito di tale inclinazione mi definiva “Il cronista degli ultimi” e non per complimentarsi. I barboni non offrono uffici stampa. Verso la metà degli anni Novanta, la solidarietà esisteva ancora. Se un giornale narrava le vicende di famiglie inscatolate dentro macchine che fungevano da guscio e riparo notturno, qualcosa si muoveva. Qualcuno offriva alternative più o meno effimere. Le cosiddette istituzioni almeno facevano finta di porgere l’orecchio e ascoltare. Adesso, mi occupo un po’ meno degli ultimi, dei penultimi, dei terzultimi. Sono diventato, mio malgrado, un cronista di metà classifica, con ambizioni Uefa. Le linee editoriali dei quotidiani non prevedono spazi ampi per i resoconti sociali che rovinano l’appetito del Santissimo Consumatore. Eppure ho continuato, in silenzio, a incontrare molliche che una volta erano pane, vite divorate da inesorabili meccanismi digestivi. Mi sono venuti in mente tre casi, qui riassunti in pillole. Continua »

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  • L’aereo più pazzo del mondo

    La speranza colpisce al volto, soprattutto quando è assurda. La notizia arriva dall’India. Una fila lunghissima attende quotidianamente il suo turno ai piedi di un aereo. Si entra goccia a goccia. Si sorride alle hostess. Si scelgono giornali e pasticcini. Si osservano le delicate strutture della cappelliera, i finestrini, l’alloggiamento con le mascherine dell’ossigeno cui – secondo la vulgata – sarebbe deputata la facoltà di “stonare” l’utente terricolo in caso di incidente, addizionando un misericordioso oblio alla tragedia della caduta. Ha inizio lo spettacolo, siore e siori. L’addetto alla comunicazione si piazza al centro del corridoio e comincia a mulinare le dita nella segnaletica di rito. Indica procedure e uscite di sicurezza, mentre il raschio di una voce dell’altoparlante ammonisce, avverte, tranquillizza. Quest’ultima fase è di solito scavalcata a piè pari dai passeggeri di tutto il mondo che non vogliono sentire parlare di atterraggi d’emergenza, per purissima e comprensibile scaramanzia. Perciò, in contemporanea, si mettono a sbirciare la prima rivista capitata sottomano, manco fosse un testo sacro. A Nuova Dehli non accade. Ogni attimo è seguito con instancabile voluttà. Le braccia in movimento delle hostess – agli occhi della folla – sono segmenti di un’esperienza imperdibile. Alla fine dei giochi, l’aereo decolla. Continua »

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  • I disabili

    Da bambino tentavo spesso di passeggiare sulle pareti. Come l’uomo ragno. Sporgevo il classico sandalo a occhio degli anni Settanta per camminare sulla superficie verticale e bianca della sala da pranzo. L’idea era ambiziosa: arrivare sul soffitto e circolare con la testa all’ingiù. Siccome non riuscivo nello scopo, piangevo. Avevo cinque anni ed ero un disabile. La mia disabilità consisteva nella frattura fra i desideri e la realtà. Fra ciò che volevo e ciò che non potevo. Fra i percorsi e la strada. In fondo l’handicap è tutto qui: un rapporto squilibrato tra la persona e il contesto. Carrozzine bloccate dalle macchine in sosta selvaggia. Autobus senza supporto. Percorsi di guerra metropolitani.
    Nel mio caso, sono cresciuto. Col tempo, ho capito che era impossibile “acchianare i mura lisci”. La saggezza del limite mi ha reso improvvisamente normale. Domanda: una città più a misura di handicap potrebbe avvicinare la normalità alla disabilità? Non avere l’uso delle gambe è tragico. Non potere passare sui marciapiedi ostruiti dalle masserizie del traffico accresce il senso di impotenza. Moltiplica il dolore. Esclude. Continua »

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  • Maledetti giornalisti

    Questa non è una riflessione tipicamente palermitana, eppure potrebbe perfino esserlo. La domanda: “Cosa prova in questo momento, signora?”, rivolta alla madre che ha appena seppellito il figlio tranciato a pezzi, la poniamo (con orgoglio) anche a Palermo. Ecchecavolo, mica siamo inferiori a nessuno noi pennivendoli del Sud!
    La presente prende le movenze da un evento minuto accaduto in quel di Garlasco a margine della nerissima storia principale. Riporto dal Corriere on line – momenti di tensione, nel tardo pomeriggio davanti alla casa di Stasi. Poco dopo le 18.30 il padre di Alberto (l’indiziato dell’omicidio), dopo essere tornato a casa con la moglie ed essere entrato in auto nella villa attraverso il cancello automatico, è uscito a piedi e si è diretto verso una fotografa che era lì appostata, urlando lasciateci in pace e andate via. La giovane fotografa, 24 anni, ha raccontato di essere stata anche colpita: “Il signor Stasi ha preso la mia macchina fotografica, mi ha colpito in fronte e mi ha provocato questa ecchimosi” ha detto mostrando un segno in fronte. Anche la mamma di Alberto, secondo alcuni, avrebbe fatto alcuni gestacci verso i cronisti -. Dovevano dargliele di più. Alla fotografa, intendo. Garlasco ci mostra, ultimo caso in ordine di tempo, quanto sia schifosa, insopportabile e invasiva la mania dei cosiddetti cronisti di infilarsi col registratore aperto fin dove è possibile, ben oltre decenza e umanità. Continua »

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  • Il cronista

    Un cronista è un uomo semplice. Ha bisogno di attrezzi semplici: un taccuino, la penna e la verità. Intendiamoci, verità non coincide per forza con realtà. La prima appartiene agli occhi che la osservano, al cuore che la filtra, al cervello che la definisce, alla voce di carta o di suono che la copia su questa o quella pergamena mediatica. La seconda è un affare privato di Dio. Esiste un peccato originale, un serpente incuneato nell’inchiostro di chi racconta “a suo modo”. Può essere perdonato con la buonafede.
    È stata una bella mattinata di sabato, per il sole e per le tante persone che hanno accompagnato Lirio Abbate nella sua passeggiata in centro. Mi chiedo cosa accadrà domani, quando tornerà il silenzio sui passi di Lirio e di quelli come lui. Mi chiedo cosa accadrà quando certi politici – solidali durante le parate – telefoneranno in redazione per raccomandare un comunicato, per pretendere, per suggerire, per imporre. Mi chiedo cosa accadrà domani quando nessuno – nemmeno il portavoce di Fassino – si preoccuperà più dei cronisti precari, di fatto schiavi di un sistema che li imbavaglia e li riduce in condizioni di pietosa omertà col ricatto del pane. Continua »

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  • “Mio marito, eroe dimenticato”

    La foto di Nicolino Billitteri ha un mezzo sorriso che il rimpianto fa brillare ad ogni anniversario, nella lapide di una piazza frequentata da cani al guinzaglio e persone frettolose. Nel luccicare di quella bocca semichiusa, gli occhi di chi guarda annotano fremiti diversi. È sicuramente un mezzo sorriso da vigile del fuoco esperto, abituato alle fiamme del rischio. Delimita la saggezza di un coraggio che non diventa mai incosciente spavalderia. Per i suoi cari rappresenta un lampo di tenerezza intermittente, un’oasi nel deserto dei giorni attraversati dal dolore.
    Il pompiere Nicolino Billitteri correva nel ventre di un palazzo di piazza Cascino consumato dalle fiamme – nel rogo del negozio «Licata» – il 27 agosto del ’99. Il fuoco lo intrappolò. Un solaio gli cadde addosso.
    Ora, Letizia Ferrara, la vedova – una donna forte e dignitosa – accusa: «Mio marito è stato dimenticato. È come se non fosse morto nessuno». C’è stata una messa nella ricorrenza della tragedia. La chiesa – dicono – era praticamente vuota.
    Letizia l’avevo intervistata qualche tempo fa, quando le fiamme di piazza Cascino erano ancora recenti. Una casa bella e tranquilla. Figli da crescere, ma senza un padre. Un ciondolo del ricordo appeso al collo. Foto di Nicolino dapperutto: nel mobile dell’ingresso, accanto alle porcellane, nella quiete domestica della cucina, nei corridoi. Come per trattenere una vicinanza che si era ormai crudelmente dissolta. Continua »

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  • Le buttane della Favorita

    La ragazza nera sembrava un corpo solo con la notte. L’unica distinzione tra lei e l’oscurità addensata era una borsetta luccicante e il sorriso bianco che lasciava intravvedere. Salì sull’ambulanza. Chiese un bicchiere di tè caldo e si addormentò come una bambina, tra le braccia della psicologa. L’ambulanza cominciava il suo giro col buio. Il servizio prevedeva la riduzione del danno. Si distribuivano preservativi e bevande. Con la scusa si dava anche un po’ d’amore.
    Non so proprio come sia l’amore per le ragazze nigeriane che battono lungo i viali della Favorita. Per le donne – come scrive uno più sotto – “che deturpano”. Ed è certo che il problema della prostituzione (delicato simulacro verbale pubblico. Tanto uno pensa, in cuor suo, che le buttane sono sempre buttane) vada risolto. Ma soprattutto per loro – per le ragazze della notte – pur sempre esseri umani, non immondizia da dislocare altrove affinché giammai turbi la casta limpidezza dei nostri occhi. Io sono contento che alla Favorita ci siano le “buttane”. Sono perfino felice – finché esiste – che lo sfruttamento avvenga in modo così palese. Almeno non avremo alibi. Non potremo dire: “Non sapevamo”. Continua »

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  • Paolo è vivo

    Io voglio ricordare Paolo Leto. Lo dico subito a beneficio di stupidi sarcasmi: è morto. Ma, per me, Paolo è vivo.
    È vivo nel mio cuore. È vivo negli occhi di suo padre. È vivo nelle braccia di sua madre. È vivo nelle lacrime dei suoi fratelli, nello zaino della scuola, negli asciugamani del ferragosto, nel sole sulla spiaggia, nei ragazzi che singhiozzavano in chiesa. Paolo è vivo in questo e in molto altro. Riesco perfino a immaginarlo. Lo vedo, mentre prepara la sua razione di felicità ed esce con gli amici incontro a un’immensa notte stellata. Vedo i suoi anni azzurri. E il mare che respira tutto intorno.
    Quel Ferragosto di qualche tempo fa ero di turno di nera. La chiamata arrivò di mattina presto. “C’è un ragazzino folgorato a Trabia…”. La dinamica era chiara. Paolo Leto aveva appoggiato una mano su un palo della luce. Una scossa improvvisa aveva annientato i suoi sogni, a quindici anni. C’è un processo in corso.
    Nel mio piccolo – per professione – ho raccontato diversi volti del dolore. Non so dire perchè alcuni frammenti ti restino dentro più di altri. Non so perchè quando mi trovai a casa della famiglia Leto, gli occhi di papà Carmelo mi entrarono nel cuore. E non sono usciti più.
    Cosa possiamo sperare? Che sia fatta giustizia, certo, perchè nessuno può morire per avere posato la mano su un palo della luce. Però non mi basta affatto. No, non mi basta la cosiddetta giustizia degli uomini.
    Io spero che la sopravvivenza di Paolo non sia legata al filo esile della memoria. Che ci sia un posto dove raggiungerlo e abbracciarlo. Che ci sia un giorno tanto grande e luminoso per gli occhi di suo padre. Per ritrovarsi. Per dire a noi stessi con stupore: Paolo è vivo.

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  • Il suicidio

    Lui è stato salvato all’ultimo. Aveva le vene dei polsi segate e vagava come un allucinato. I carabinieri lo hanno trovato appena in tempo. Lui – diciannovenne che decide di farla finita per una delusione amorosa e per la bocciatura a scuola – è un volto anonimo tra coloro che sono scampati. Che hanno visto Caronte in faccia, senza solcare fino in fondo il fiume nero del suicidio.
    Già, il suicidio. Basta la parola per far sobbalzare vecchi redattori di giornali con i capelli bianchi e ricordi di antiche guerre di mafia. Si scriva e si parli di tutto, però il suicidio… Forse perché il morale della truppa va conservato in buono stato e perciò il sangue fresco di macelleria deve appartenere agli altri, giammai alla mano che offende e si offende. Ufficialmente, Perché «altrimenti scatta l’emulazione». Eppure, i casi non mancano. I media tacciono, se i particolari non sono clamorosi o se il carnefice-vittima è figlio o padre di nessuno. Secondo una statistica ufficiale, nel 2006 quarantotto persone si sono tolte la vita, in città. Il trend è in crescita. Gli esperti ritengono verosimilmente che si tratti del cocuzzolo della montagna. E che i caduti siano molti di più. Continua »

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  • Abbietta zingara?

    L’agenzia Italpress la racconta così: «Sono una vittima. Con il rapimento non c’entro niente. Io amo i bambini, non gli farei mai del male. Ho sette figli». Si difende Maria Feraru, di 45 anni, la rumena accusata di avere tentato di rapire, sabato scorso, un bimbo di tre anni in un lido balneare di Isola delle Femmine. Arrestata e poi scarcerata, su provvedimento del gip del Tribunale di Palermo, dopo tre giorni trascorsi in galera, la donna racconta di avere avuto paura. «Una guardia – dice – mi ha anche picchiata. Non mi hanno dato neanche l’acqua e sono stata costretta a bere le gocce che uscivano dal rubinetto del bagno della cella» (bisognerà ascoltare con attenzione le repliche a questa versione dei fatti, nds).
    Il provvedimento di scarcerazione è stato disposto dal gip dopo che una testimone, il cui racconto era ritenuto decisivo dagli investigatori, ha parzialmente modificato la sua deposizione, raccontando di essersi spaventata, dopo avere visto la rumena (una zingara, nds) vicino al bimbo. Il magistrato nella motivazione ha evidenziato come la donna sia stata vittima di pregiudizi xenofobi e razzisti”. Continua »

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  • Paparcuri, chi era costui?

    Ci sono i morti e i vivi. Ci sono vittime avvolte nel sudario che viene squarciato una volta all’anno, per le commemorazioni. Ci sono vittime che rimangono sepolte nella tomba dell’indifferenza. Alcuni scontano la colpa di essere sopravvissuti.
    Giovanni Paparcuri era con Rocco Chinnici, quel giorno. Il suo racconto spicca su http://web.tiscali.it/g.paparcuri/. Non c’è bisogno di altre parole. Solo di qualche taglio, per la lunghezza tremenda e nitida del dolore.
    «Scrivo perché voglio fare conoscere alla gente come lo Stato tiene in considerazione un sopravvissuto ad una strage mafiosa. Scrivo per riuscire a capire il perché di assurdi comportamenti da parte delle istituzioni, comportamenti che hanno del paradossale e dell’incredibile. Scrivo perché mi aspettavo una risposta da alcuni politici ai quali ho chiesto di darmi delle spiegazioni. Scrivo per me stesso. Sono Giovanni Paparcuri, rimasto gravemente ferito in quella circostanza (l’attentato che uccise Chinnici, il maresciallo Mario Trapassi, l’appuntato Salvatore Bartolotta e il portiere del palazzo dove abitava il magistrato, Stefano Li Sacchi). Ero addetto alla guida dell’autovettura blindata. Mi sono salvato per una serie di circostanze. Sono trascorsi 24 anni, circa un quarto di secolo, e a distanza di tutti questi anni, di recente, lo Stato, quello stesso Stato per cui ho rischiato la vita, mi tratta ancora una volta in malo modo. Continua »

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  • Il sopravvissuto

    Chi è un sopravvissuto? Uno che crede di essere scampato all’inferno e se lo ritrova ogni giorno, negli occhi e nel cuore. A mordere. È uno che ha pensato di farcela. E poi ha scoperto di avere prolungato in eterno la sua agonia. Non so dove si annidi esattemente il dolore, nel corpo di Antonio Vullo. All’apparenza sembra soltanto quello che è: un signore cortese e gentile, che dimostra un po’ di più dei suoi quaranta e passa anni. Insomma, a guardarlo non si direbbe di trovarsi davanti a uno che c’era. In via D’Amelio, intendo. Il respiro è tranquillo. Il battito cardiaco è regolare. Le pupille riflettono la normale dolcezza di una persona normalmente soddisfatta della vita. Poi, Antonio comincia a raccontare: «Sa, il dottore Borsellino era un tipo simpatico e spiritoso. Gli piacevano le battute, il gioco di parole. Una volta in ascensore, lesse il cartello: “Capienza, duecento chili”. Mi guardò col suo mezzo sorriso e mormorò: “Ma siamo sicuri che Enza ci capi?”. Noi gli volevamo bene. E io volevo bene ai ragazzi della scorta. Erano persone semplici. Lo Stato poteva fare di più per loro. Per tutti». Non è facile per Antonio Vullo – autista delle macchine speciali – diventare cronista del suo stesso strazio. Continua »

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  • Passeggiando con la Santuzza

    Il Festino. Il buio e la luce. La morte e l’amore. Che altro c’è di vero? Stasera si può solo camminare piano piano verso il mare che pare una cartapesta azzurra ondulata, laggiù, in fondo. Rammenta il cielo del presepe di casa, pieghettato alla stessa maniera. Santa Rosalia come Babbo Natale? Stasera si può solo camminare, con un coppino di semenza nella mano sinistra. E un pizzico di friabilissima anima santa dall’altra. L’essenziale è invisibile agli occhi. La morte scorre nelle tenebre non ancora sanate dal chiarore dei fuochi. È la peste, bellezza. L’amore è un riflesso di luna, allungato sulla riva contrapposta.
    Stasera si può solo camminare, per capire se Palermo è uguale a se stessa. Il Festino è uno specchio magico. Anche la miseria che rimanda indietro reca una sua consolante meschinità.
    Il commerciante di babbaluci, all’angolo di Vicolo del pallone, con la botteguccia limitrofa al cuore più profondo della Kalsa, non ha più tasche dove mettere i bigliettini. Numerini minuziosamente vergati a penna per ordinare le lumachine che i palermitani ortodossi succhiano fino al midollo, almeno in questa occasione. I veraci continueranno. I praticanti moderati si astengono per il resto dell’anno. Continua »

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  • Aspettando il “Festino”

    È una storia di luce. E di buio. Il Festino somiglia a un gigantesco interruttore che separa, in un clic lunghissimo, la speranza d’oro dal fondo di bottiglia della tenebra. Non andate a cercare le carcasse dei desideri, il mattino dopo. La quantità delle spoglie mai transitate dal campo del sogno alla realtà vi metterebbe malinconia. La siepe di concertina, al confine, è altissima. Ma è bello lo stesso esserci nella notte che ti prende in braccio, per lasciarti vedere una città diversa, nella rifrazione delle anime incendiate di semenza. Ognuno, poi, ha la sua. L’italo-americano di due anni fa rimpiangeva Palermo d’allora. Quando lui era giovane e l’oceano rappresentava appena una chiazzolina blu sulla carta geografica. Cominciò a battere le mani, saltellando, mentre i fuochi spruzzavano lingue rosse in cielo. «Io me l’arricuordo Paliemmu – disse nel suo slang che lo rendeva simile a una caricatura di don Vito Corleone -. C’erano le carrozze e i cavalli. Vulissi turnari n’arreri». Scherzi della memoria, in groppa a un ricordo chiamato cavallo. Mille volti sono rimasti appiccicati al taccuino che li ha strappati alla strada. Continua »

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  • Brancaccio

    Brancaccio nasconde un fondale d’ombra, sotto una luminosità intermittente. Inauguravano il busto di padre Pino Puglisi, davanti al centro Padre Nostro. La banda suonava motivetti allegri. Accanto al passaggio a livello della zona, le voci demolivano la festa, nata dal cordoglio. «Puglisi era un parrino tinto», sputò una giovane donna con i lineamenti tesi di rabbia. La vecchia Maria lasciava intravvedere appena uno spicchio di volto impaurito, dalle persiane socchiuse: «Non posso raccontare niente. Altrimenti, mi ammazzano…». Maria aveva un nipote che frequentava quel prete dal sorriso gentile. «Sono cattivi – narrava Maria -. non mi lasciano in pace. Mi hanno bruciato la porta di casa. La mafia è troppo forte qui. Vada via, per favore».
    Brancaccio conserva un midollo violento, sotto la pelle della retorica che la intende già redenta. Maurizio Artale, responsabile del centro Padre Nostro, impegnato in una difficile opera di costruzione del bene, è stato minacciato di morte. Ha lanciato il suo appello alle istituzioni contro la pericolosa solitudine che sempre circonda, a Palermo, chi vuole mutare in meglio la natura di qualcosa. Il giorno dopo è ancora più arrabbiato: «Apprezzo gli attestati di solidarietà e stima – dice -. Però sono insufficienti. Chiediamo una maggiore collaborazione, anche delle forze dell’ordine. La questione delle minacce è antica: ci hanno sfasciato il pullmino a più riprese. Una volontaria ha ricevuto un sms del tipo: “Se continui ad andare al centro ti ammazziamo”. Attendevamo una comunicazione del prefetto che non è mai arrivata. Io chiarirò ai nostri volontari quello che possono rischiare, stando qui. E se qualcuno farà la scelta di andarsene, saremo costretti a chiudere alcuni servizi. Lo zoccolo duro continuerà a lavorare. Eroghiamo prestazioni essenziali». Continua »

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  • Nino che visse due volte

    Nino che visse due volte, quella mattina, stava pigliando il caffé al bar dell’ospedale. Col solito rituale. Grande “sbintuliata” della bustina dello zucchero, da aprire e versare gradualmente nella tazzina, per assaporare la discesa di ogni granello di dolcezza. A metà dell’operazione, Nino Gambino si è fermato, di colpo. Ha detto: “Mi sento male”. È precipitato sul pavimento lindo di straccio. È morto qualche ora dopo al “Cervello”. I suoi familiari hanno donato gli organi.
    “Fino a quel preciso momento – racconta Damiano Gambino, il fratello – mi ero chiesto a cosa servisse la vita di Nino, devastata dalla malattia, con sofferenze incredibili soprattutto per chi gli stava intorno. Ho avuto la mia risposta”. Nino Gambino, deceduto a quarantatre anni – recita la biografia – buona parte dei quali trascorsi tra camici bianchi e cure, per mettere una diga al dilagare della sua patologia mentale. Un grave ritardo procurato da un trauma infantile, l’esistenza trascinata tra crisi violentissime e improvvisi ricoveri. A che vale uno strazio talmente insopportabile? Suo fratello dice che la soluzione è arrivata all’improvviso: “In chiesa, al funerale, ho capito che Nino è passato da qui per dare amore e speranza ad altre persone”. Sette persone sono rinate grazie ai suoi organi. Il più piccolo dei beneficiari è una bambina palermitana di otto anni che ha ricevuto il fegato. Continua »

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