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  • E se fossero i media ad aver condannato Palermo?

    E se fossero i media ad aver condannato Palermo?

    Cosa succederebbe se scoprissimo che alcuni problemi di Palermo – e della Sicilia in generale – sono anche conseguenza di come viene raccontata la città? Non è una provocazione, ma una domanda fondata su decenni di ricerca scientifica sulla comunicazione.

    Ecco un breve excursus. Nel 1972, Maxwell McCombs e Donald Shaw offrirono la prima evidenza empirica del fatto che i media, pur non dicendo alle persone “cosa pensare”, sono straordinariamente efficaci nel dire loro “a cosa pensare” (Cohen, 1963; McCombs & Shaw, 1972): attraverso la selezione e l’enfasi di determinati temi, plasmano la salienza delle questioni nell’agenda pubblica.

    Più tardi, Erving Goffman e Robert Entman hanno teorizzato che il modo in cui un’informazione viene “incorniciata” – cosa si sceglie di enfatizzare, cosa di omettere – influenza profondamente come il pubblico interpreta quella realtà (Goffman, 1974; Entman, 1993).

    Ma è con il concetto di “stigmatizzazione territoriale” del sociologo Loïc Wacquant che la questione assume rilievo. Wacquant parla di “macchia del luogo” (blemish of place): uno stigma che si attacca ai territori attraverso rappresentazioni collettive, trasformandosi in una forma dannosa di azione simbolica (Wacquant, 2007; Wacquant et al., 2014).

    Dalla seconda metà del Novecento, ad esempio, la mafia siciliana è divenuta protagonista di decine di film e fiction con un corredo stereotipato di immagini che si è sovrapposto agli eventi storici, modellandoli e influenzandone la percezione (Morreale, 2020).

    Un’ampia letteratura, inoltre, mostra spesso un’associazione tra esposizione mediatica alla criminalità e maggiore paura del crimine, ovvero il pubblico finisce così per sovrastimare sistematicamente la proporzione di crimini violenti rispetto ai dati reali (Heath & Gilbert, 1996).

    In particolare, studi su campioni prevalentemente giovanili indicano una correlazione tra consumo di social media e paura del crimine (Intravia et al., 2017). Questo innesca un circolo vizioso: le aree stigmatizzate diventano “territori di relegazione”, dove reputazioni negative perpetuano cicli di svantaggio, scoraggiando investimenti e opportunità (Wacquant, 2007).

    Insomma, non si tratta di negare i problemi reali di Palermo ma di riconoscere che la narrazione mediatica non è uno specchio neutro della realtà: è uno degli strumenti attraverso cui quella realtà viene costruita (Berger & Luckmann, 1966). Quando la cronaca fedele si trasforma in focus sistematico su determinati frame narrativi contribuisce a cristallizzare stereotipi che diventano profezie autoavveranti.

    Lo so bene, da giornalista quale sono, che il diritto di cronaca è sacrosanto, ma esiste anche una responsabilità narrativa. Palermo merita di essere raccontata nella sua complessità, non ridotta all’icona immobile di uno stigma. Cambiare le modalità di questa narrazione non è censura: è democrazia matura.

    Palermo, Sicilia
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