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venerdì 4 ott
  • Febbraio

    Accussì i tue mani riprendono a lavorare il legno. Odore di acquaragia. Punge come spina. Mentre tu pialli, scartavetri, levighi e vernici. In silenzio e senza tradire emozione alcuna. Una pietra sei.
    Mentre l’eco delle tue parole, signor Febbraio, mi vibra ancora dentro.
    Hai detto due minuti fa: “si muore una volta sola”.
    Minchia verità.
    Eri in piedi, le mani chiuse, gli indici liberi e puntati su verso il cielo.
    Una preghiera.

    Poi, senza guardarmi, le tue mani riprendono il lavoro interrotto.
    Da due minuti quindi c’è solo silenzio, ammirato e stupefatto.
    È vero, si muore una volta sola.
    Il flusso dei miei pensieri, rincorsa confusa di cavalli scossi, è interrotto da una provvidenziale visione.
    Una cornicetta nera sul muro dietro le tue spalle, con dentro una immagine tridimensionale di gesùcristo che, se la guardi di sbieco, ti regala uno stupefacente occhiolino. È assurdo, ma gesùcristo che strizzulìa l’occhio pare essere l’unica forma di vita ccà rìntra ‘a tua putìa: ci sono io, ed io sono immobile; poi ci sei tu, signor Febbraio, e tu mi ricordi in tutto e per tutto un sasso.
    Poi però riprendi a parlare, senza guardarmi mai, e confermi in maniera inattesa ma precisa la mia sensazione. E chìsto mi fa sorridere. È un balsamo per l’orgoglio insertàrci sulle persone.

    “…perché, Davidù, m’u diceva sempre ‘u me maestro: devi essere, rinnànzi alla bara e puru rinnànzi al corpo che ci tràse rìntra, devi essere come pietra: stessa immobbilità ma puru stessa pietà, che quando si sta cadendo, la pietra non chiede niente a nessuno ma a tutti offre appoggio… e accussì m’insignàvu ad essere pietra non solo mentre costruisco ‘u tabbùtu ma anche quando…”

    ‘U tabbùto. La bara.
    Perché chìsto è il tuo lavoro: tu sei un tabbutàro, signor Febbraio. Un costruttore di bare.
    In italiano il termine è femminile, quasi dovesse accogliere e cullare il corpo che in lei giace, da quel momento fino alla fine dell’eternità. Ma ‘u termine palermitano è infinitamente superiore. Tabbùto viene direttamente dall’arabo tabùt, ed indica sia la bara che il sepolcro stesso. È da qui che nasce la parola ed il concetto stesso di “tabù”. Perchè è soltanto di fronte all’unico limite inviolabile che il nostro affanno si ferma, finalmente trovando requie. Il tabù della morte. Che non è che non se ne deve parlare. È che non se ne può parlare. Differenza immane. Il tabbùto è al contempo soglia e viatico. Oltre esso: l’inconoscibile, ciò che non ci è dato sapere, la strada che l’anima percorrerà nuda e scalza e che noi, da questa parte della vita, noi mai sapremo.
    Non è possibile il ritorno, non è ne contemplato il racconto.
    È oltre il sogno. È dall’altra parte della vita.
    Perché si muore una volta sola.
    Di fronte a chìsta verità, il resto non conta poi accusì tanto.
    C’è solo la morte, e quello che si può credere per fede.

    Tu intanto riprendi a raccontarmi i capitoli della tua vita, con la precisione di chi non ha ricordi, ma ferite.
    Io ascolto, assorto, le tue parole lente e scolpite.
    Qualche tua frase me la ripeto in testa, mentre socchiudo l’occhio destro, come con alcune strofe di canzoni.
    Hai detto: si vivono tante vite ma è una sola ‘a morte.
    Hai detto: ‘u morto insegna a chiànciri.
    Hai detto: se c’è una cosa che è diversa pi’ tutti, chìdda è proprio ‘a morte.

    Tu parli e ‘nta stu mentre, dal muro dietro le tue spalle, dalla sua cornicetta nera, gesùcristo mi fa un occhiolino appresso all’altro, che io stesso mi sto sorprendendo nell’accorgermi che è la mia testa che oscilla ritmicamente da destra a sinistra, indipendentemente dalla mia volontà, per continuare a ricevere quell’occhiolino. Potrebbe essere un miracolo. O forse no, a pensarci bene. Comunque, l’occhio m’u strizzulìa sempre. Sempre. Ogni santa volta. E bè, gli devo stare simpatico oggi a gesùcristo. Ci sto pure facendo un balletto con la testa davanti a ‘sta sua immagine tridimensionale.

    “…hàiu sìti… Davidù, vuoi n’antìcchia di vino russu in pietra”?

    Sì signor Febbraio, grazie

    Bevi un intero bicchiero di vino in un unico colpo, lo appoggi ad un tavolino spoglio e ripìgghi a cuntàre.
    Accussì le tue mani ripìgghiano ad intarsiare l’aria
    sono mani di sarto le tue
    il legno di una bara è un sottile filo che lega chi non c’è più con chi è rimasto a calpestare la terra
    da questa parte della vita.
    Perché è il mistero della morte che il tuo lavoro ci ricorda, sempre.
    Domande senza risposte,
    come i territori dilatati nel tempo dei sogni.

    “…senti a me, Davidù: il cuore non è l’organo più importante… il cuore è elastico, io n’hàiu viste a stracatafòttere persone disperate chiàncere e chiàncere… tipo mio fratello Ferruccio… certo ca fu terrìbbile… cose che uno dice: non si ripigghierà mai più… era disperato… giustamente… e chi è che non lo era?… una tale tragedia… io cercavo di essere pietra, come m’insegnò Enzo ‘u tabbutàro, ‘u me maestro… ddà vòta, t’u giuro vero: ddà vòta fu difficilissimo… impossìbbile essere di pietra… impossìbbile… a proposito, ‘u sai?, sempre ‘u me maestro diceva: anche la pietra a volte ha bisogno di piangere e accussì diventa sorgente… ecco: per un po’ puru io sono stato sorgente, diciamo… non è che piangevo, non mi veniva di piangere di lacrime, ma era proprio come se… insomma: la pietra piange come può… mio fratello Ferruccio invece… mischìno… chiancèva mattina e sera… ‘a taliàrlo, t’u giuro vero, mi si strincèva ‘u cori… certo che fu una tragedia… un lutto terrìbbile… e come si può venirne fuori?… poi però… poi succirìu… come ‘u vuoi chiamare?… miracolo?… destino?… fatto sta ca succirìu… e io potevo davvero vedere i schegge del cuore del mio povero fratello Ferruccio rimettersi tutte assieme in un disegno ancora molto bello…”

    Il vino mi scende come acqua e mi risale come fuoco.
    Sei un uomo senza lacrime, signor Febbraio.
    Hai la stessa nobile pietà della pietra.
    In fondo, a ricordarci chi è morto, è una iscrizione nella pietra della tomba.
    La pietra rimane, nonostante tutto.
    Nel suo ergersi fiera contro vento che taglia, contro pioggia che infradicia, contro sole che asseta sta la sua grandezza, e la sua necessità di essere roccia.
    Nel vortice del tuo racconto osservo ciò che sta dietro le tue mani: assi di legno ancora grezze, martelli, chiodi.
    Tutti gli elementi per una crocifissione.
    Guardo veloce dietro le tue spalle e, ma forse è solo una mia impressione, adesso l’occhiolino di gesùcristo è un pochettino preoccupato.

    “…l’eternità non è di questo mondo, pì chìsto il cuore non è l’organo più importante… ‘u vuoi sapere quale è l’organo che comanda tutto? È lo stòmmaco… lo stòmmaco è l’organo cchiù ‘mpurtante di tutti… e puru ‘u cchiù bastardo… per fame si ammazza, e con lo stòmmaco vacànte, vuoto: hai voglia di fare ‘u poeta e cuntàri minchiate… c’à panza vacànte ‘a testa ‘un raggiòna… i rivoluzziòni si fanno p’u pane e per l’acqua, no p’un pìlo ‘i fìmmina… è la storia che nn’u insegna… e quindi come dicev… ou, ma perché ti giri sempre a taliàre il quadretto di gesùcristo alla parete?”

    No, è che

    “Ma ti piace?”

    ….

    “Allora?”

    “Ou, parlo cu ttìa”

    Vuole la verità?

    “No, la buggìa… ‘nca certo che vògghio ‘a verità, Davidù”

    Sarebbe un quadretto anche simpatico… ma… se devo ess

    “Ou, t’ho chiesto una cosa precisa: ti piace ddù gesùcristo che strizzulìa l’occhio? Sì o no”

    No signor Febbraio non mi piace

    “Oh! Benedetto il cielo! Anche a me, con rispetto parlando, mi fa cacare… e non ci tràse niente ‘u fatto che ho smesso di andare alla chiesa da quindici anni… è proprio brutto… un gesùcristo che fa l’occhiolino… tascìssimo… è che è un regalo di me cognata Fiammetta… e che ci posso fare?… me l’ha assuppàre… eppoi però ogni volta ci casco… mi ci metto davanti e con la testa: destra-sinistra… destra-sinistra…. per taliàre se finalmente ci abbuttò di farmi l’occhiolino ogni vòta… destra-sinistra… destra-sinistra… ou, l’occhiolino m’u fa sempre… sempre…. destra-sinistra… destra-sinistra… comunque ti stavo cuntando di quando mio fratello Ferruccio si ripigghiò dalla tragedia, che era pomeriggio e…”

    Vabbè, se le cose stanno accussì… se pure il signor Febbraio che è di pietra è succube dell’immaginetta tridimensionale… ma io, su ‘ste cose ccà, io mi conosco troppo bene. È più forte di me. Ora che so che puru tu ci caschi sempre, signor Febbraio, ora che ho la certezza che puru tu ci perdi minuti e minuti giornalieri davanti a questo allucinante occhiolino, ora che tutto assume la sua dimensione di sfida, io lo so che i miei occhi si sforzeranno di stare su di te, per rispetto e perché è profondo e doloroso ciò che mi racconti, ma i miei occhi verdi a volte sono un po’ tonti, e ciò che adesso vorrebbero è un altro occhiolino da gesùcristo, uno solo, a và, un altro ancora, amunì, l’ultimo. Però ho deciso che no. No. Basta giocare con ‘sta immagine tridimensionale illogica e puru tàscia. Basta. Ho il signor Febbraio davanti, che con una generosità senza pari mi sta mostrando le ferite della sua memoria. Basta disattenzioni. Basta occhiolini. Basta gesùcristi tridimensionali. Accussì costringo i miei occhi stare bassi. Se vogliono possono analizzarsi tutto ‘u pavimento della tua putìa. Ovviamente, lo fanno. Trucioli sparsi, sette fogli di carta vetrata, chiodi di dimensione variabile ammassati dentro mezza bottiglia di plastica, pezzetti di gesso bianco e –come ho fatto a non notarla prima?- una bellissima rosa di legno tutta intarsiata, appoggiata con cura in basso laddove dal pavimento si slancia su verticale il muro. È splendida questa rosa di legno: la precisione con cui i petali formano il bocciòlo, lo stelo sottile ed elegante, le spine che –ne sono certo- pungerebbero qualsiasi dito. E, oltre la perfezione della forma, mi colpisce l’aspetto di questa rosa di legno: sofferente e triste. Signor Febbraio, che tu ci creda o no adesso mi interessa tantissimo la storia di questa splendida rosa, vorrei sapere se l’hai scolpita tu tale meraviglia o se… ma prima che io possa domandare è ancora il movimento delle tue mani che mi irretisce, accussì sto zitto e ti ascolto ammaliato

    “…fu davvero in un attimo che accadde tutto… un attimo… era febbraio ed era forse l’unica possibbilità di salvezza, visto ca io e me frate nni chiamiamo Febbraio di cognome… lei trasìu ccà dìntra, da quella porta ddà… Fiammetta… tutta vistùta di nero… appena vedova… ou, Fiammetta e me frate Ferruccio si taliàrono mezzo secondo… mezzo secondo contato… sarà stata la disperazione… sarà stato l’istinto di sopravvivenza… come lo vuoi chiamare?….miracolo? …destino?… si taliàrono mezzo secondo e tutti e due avevavo già aperta tutta la propria tavula d’u petto… ed era tavola tutta apparecchiata, pronta ad un nuovo innamoramento… ou, si zitàrono un anno dopo, in capo a un altro anno si sposarono, seconde nozze per entrambi… bastò ‘u tempo di…”

    Mi stai cuntando di come è necessario elaborare il lutto, e fotterlo per riuscire a superarlo, che ‘un si può vivere tutt’a vita immersi nel dolore, e che tuo fratello Ferruccio, dopo l’atrocità di quella tragedia, e puru Fiammetta, che rimase vedova troppo giovane, tutti e due fìciro bùono a zitàrsi prima e sposarsi poi, ‘un hàve senso vivere da soli, e le tue mani svolano dal martello al bicchiere di vino, ed hai nei confronti della bara lo stesso necessario distacco del chirurgo. Ma adesso, signor Febbraio, in questa tua putìa delle meraviglie, adesso non è più il quadretto con dentro gesùcristo
    no
    adesso è la rosa di legno che osservo
    mi ha acceso dentro una fiammella
    un sussurro continuo
    e affranto
    è una rosa dolorosa
    proprio come alcune sculture sanno e devono essere
    e forse era davvero meglio continuare a giocare con gesùcristo a occhio aperto occhio chiuso. Sì. Era meglio continuare il gioco. O forse no, perché alla fine avrei perso io. Alla fine mi sarei ritarato dal gioco. Gesùcristo avrebbe continuato a fare l’occhiolino. Non avrebbe mai perso, lui. Chìsto è certo. Anche perché, è davvero difficile che si possa rompere una immaginetta in 3D. Non l’ho mai sentito. Sarebbe stato il primo caso al mondo. E io avrei vinto. Un miracolo, a suo modo.
    Invece.
    È la rosa di legno che è ormai nei pensieri, ahimé. La sua presenza è una testimonianza di dolore, ed io, fin dal primo momento in cui l’ho vista, inutile mentire, io ho pensato a te, N.
    e alla fine troppo veloce di un amore
    il tuo sorriso di gelso
    che mi scaldava
    fiammifero in una stanza fredda

    Ti ricordi, N.?
    Ci piaceva camminare dentro Palermo nelle curve dei vicoli, ed era febbraio, e incontravamo sempre gatti neri, sempre, con una frequenza dapprima divertente, poi preoccupante, infine carica di senso arcano, ricordi?, li incontravamo sempre, nei luoghi più disparati e disperati, un mistero chìsto dei gatti neri mai compreso appieno. Un corso all’università ci avrebbero potuto fare su queste nere epifanie feline. Ma noi, di ‘sta storia della comparsàta dei gatti neri, noi non ne parlammo mai, con nessuno. Era un nostro segreto, e tale rimarrà, te lo giuro: io non lo racconterò mai a nùddo. Mai. Giuro. È l’unica cosa che è stata davvero nostra, non avendo avuto noi una storia, un ricamo comune nelle geometrie delle nostre vite. Due fili staccati eravamo prima di conoscerci, due fili staccati rimanemmo quando ci siamo baciati, quando abbiamo scopato, quando ci siamo salutati con gli occhi davanti al gatto nero appena apparito

    mancò il coraggio di stringerci in nodo, anche solo per poi scioglierlo

    meglio che vivere nel rimpianto
    o, peggio ancora, nella nostalgia di ciò che non è mai stato

    sarebbe bastato poco, N.
    sarebbe bastato almeno provarci, soltanto per poi fallire
    un pochettino di coraggio
    riuscire a guardarti negli occhi per dirti amunì, proviamoci
    e poi portare le mie ciglia sulle tue
    la mia bocca sulla tua bocca di gelso
    e poi
    comu viene, si cunta

    ma era febbraio e c’era freddo

    è il tempo che non è stato nostro, N.
    e noi che abbiam fatto finta di non accorgerci che tutto sfuggiva via
    ma ti ricordi come ci guardavamo con occhi felici?
    come era splendido lo scorrere di ogni attimo
    di ogni sciocco momento
    di ogni singolo istante che fatalmente si perdeva lontano?

    tanto, il gatto nero compariva sempre dall’ombra a benedire la nostra unione

    invece fu acqua che scivolò via da mani assetate
    piano piano
    un ultimo sospiro
    giro di ballerina
    eppoi la fiamma del fiammifero che si spegneva
    e portava via con sé, allora e per sempre,
    il suono con cui sono intarsiati assieme i sogni
    i sospesi attimi di indecisione che avrebbero potuto
    che avrebbero sperato
    che avrebbero tentato
    ma però niente
    nessuna possibilità
    nessuna speranza
    nessun tentativo
    anche soltanto per farsi del male, dopo

    ‘un ci fu niente
    niente di niente di niente
    non una prova
    non una parola
    non una mia spudorata ammissione di quanto mi scaldavano le tue labbra di gelso

    febbraio era appena iniziato… com’è che è già finito?

    Peccato, N., peccato.
    Era la gioia a portata di mano.

    “… e quindi pensavo che chìdda fosse la bara più bella che si poteva costruire… invece purtroppo mi sbagliav… a cu stai pensando, Davidù?”

    No, niente… pensavo a N., una ragazza conosciuta un po’ di tempo fa… aveva gli occhi felici…

    “E poi?”

    E poi però…

    “Capisco… e com’è che ci pensavi?”

    No, niente… quella bellissima rosa scolpita nel legno me l’ha riportata alla memoria

    “Ah. La rosa di legno”

    Che c’è, signor Febbraio? Ho detto qualcosa di sbagliato?

    “No, Davidù, no… è la rosa…”

    Che c’è?… Non ne parli se

    “No, ci stavo arrivando a cuntarti puru d’a rosa… erano… sono due le rose… le mie sculture più belle e riuscite…”

    Le tue mani, signor Febbraio, adesso sono ferme. Non subiscono la corsa del tempo. Non si muovono loro. No. Perché è altrove il movimento. È la tua anima che sta tornando indietro nel passato, quando il dolore si impose nella tua vita con tutta la sua insensatezza. Sì, è vero, il cuore è elastico e a volte riesce miracolosamente a ricompattarsi, ma le scheggiature, le cicatrici, quelle rimangono sempre e, se le sfiori, la ferita rischia sempre di riaprirsi. Ma tu, signor Febbraio, tu sai l’arte della pietra, e allora mi cunti tutto. Tutto quanto.
    Il giorno non pare più reale.
    La rosa di legno diventa fiore straziante e commovente.
    La tua putìa un teatro del dolore.
    Le tue parole un sudario addolorato nel calvario della vita.

    “…e Mirella, la prima moglie di Ferruccio, e Rosuccia la figlia più piccola… mia nipote Rosuccia… morirono nell’incendio della casa… fu proprio ddà notte che io ‘u giurai ca in chiesa ‘un ci avìssi messo cchiù piede… ‘un si può morire accussì a cinque anni… e io a Rosuccia, luce dei miei occhi, io ci avevo scolpito nel legno una rosa… un regalo era per i suoi quattro anni… una ‘a fici uguale uguale per me… i nostre vite, ci dicevo alla piccirìdda, i nostre vite sono intrecciate assieme come i petali della rosa, che è il tuo bellissimo nome… e una rosa la tieni tu e una to zio Angelo…”

    Le parole fioriscono dalle tue labbra
    come il germoglio di una rosa
    rossa e addolorata
    hanno spine le tue parole
    mi trafiggono
    mentre tutto appare immobile
    ma no
    no
    è la vibrazione impercettibile del giunco
    è il silenzio prima che stilli la goccia di sangue dal dito punto da spina
    è la piccola frattura nel masso, che anche il sasso, se pur di pietra, a volte si fa un po’ malino

    è il tuo cunto della piccola bara di Rosuccia che era la bara più bella che hai mai costruito, dello stesso albero di quello della madre, che hanno a stare unite insieme puru sottoterra, e poi tu che poggiavi su quei cinque anni che non ti sorridevano più una rosa di legno scampata ad un incendio per… come lo vuoi chiamare?… miracolo?… destino?… fatto sta che scampò… e la rosa di legno dorme dentro il tabbùto, accanto a ciò che rimane di quel corpicino sbranato dal fuoco, accanto a quella parte di te in quel giorno per sempre morta e seppellita là dentro… io mai più nna chiesa, mai più… e poi è la bara si chiude, la luce dei tuoi occhi che non sorride più, la vita che si svela in tutta la sua insensatezza e ci mostra fottendosene di noi e dei nostri sentimenti massacrati il tabù della morte, allora e per sempre, ma ti sia lieve la terra sangù mio, amen

    I tuoi occhi sono fermi, signor Febbraio. Come le tue mani.
    La pietra piangerà pure, ma vista da fuori, sempre pietra rimane.
    Accussì ti alzi in piedi e torni al tuo lavoro
    all’enesimo pezzo di legno da incastrare
    all’ennesimo chiodo da martellare
    all’ennesimo tabbùto da compiere
    che accoglierà un corpo qualsiasi di una persona qualsiasi in un momento futuro qualsiasi

    “Adesso Ferruccio e Mirella mi hanno dato tre nipoti bellissimi: Jacopo, Emanuele e ‘u cchiù nico ‘i tutti è Enzo… come il mio vecchio maestro, si chiama… miii: è un canazz’i bancàta, ogni vòta so matre si dispera come una…”
    e pialli, levighi, scartavetri, dipingi, con la potenza e la delicatezza di una pietra preziosa.

    Signor Febbraio, io adesso devo andare… grazie di tutto…. anche del vino… chiudo la porta?

    “No, lascia pure aperto ca cància l’aria, Davidù… torna a trovarmi quando vuoi… buona giornata”

    Il clima è decisamente mite.
    Questo febbraio ha dimenticato la pioggia, e Palermo sta iniziando ad avere davvero sete. Attorno a me sono i passi veloci di muratori che vanno a pranzo. Gli zaini colorati degli studenti che rifiatano alle fermate dell’autobus. Il respiro della città interrotto ora da un clacson, ora da una sirena della polizia, ora dalla signora del terzo piano che squarciagola a un conoscente giù nna strada “Toooooniii, accàttami i sicarììììììette”.

    Mi giro e vedo che tu, signor Febbraio, tu non sei più al tavolo di lavoro, ma sei con lo sguardo inchiodato davanti al quadretto di gesùcristo, e fai con la testa sinistra-destra sinistra-destra, nella mano un bicchiere con n’antìcchia di vino rosso che con movimento rapido porti davanti ai tuoi occhi e, in silenzio, col gesto di un leggero invito, rivolgendoti al gesùcristo appeso al muro, “alla tua” sussurri, dalla pietra delle tue labbra fiorisce un sorriso appena appena accennato e poi bevi tutto d’un fiato, nel tuo quotidiano tentativo di far pace con chi ti donò di una rosa lo splendore che trafigge gli occhi e le spine che frantumano i sogni.

    Io m’infilo i mani in tasca e mi nni vàiu verso il Capo. Ho voglia di pesce da grigliare e di abbanniàte che da sempre almeno una volta ogni mezzora, in un attimo benedetto, si intarsiano tutte quante assieme in un’unica lancinante armonia.

    Palermo
  • 30 commenti a “Febbraio”

    1. Quando ero piccolo mi hanno insegnato ad essere pietra, perchè se sei pietra pure se ti travolgono le onde del mare al massimo ti allisci, ma è poco ma sicuro, resisti magari alle tempeste.
      E poi una pietra non si può smuncere. Un giorno te la dissi questa cosa, che io ero pietra … ma tu eri più ostinata di me e me lo dovevi fare capire quanto avevo torto. Accussì accuminciasti a smuncere, ogni bacio, ogni parola, ogni sguardo mi smunceva il cuore, ridere insieme guardandoci negli occhi … un’altra smunciuta … finchè ci sei riuscita, sei riuscita a fare piangere una pietra. Ma se fai piangere una pietra, se la svuoti, se le togli il succo, alla fine hai una pietra che è più pietra ma che dentro ha dei vuoti. Ed una pietra vuota, c’è picca ì fare si rompe.
      Adesso piangi perchè si rumpio à pietra, ma io che ci posso fare sono una pietra rotta, non ti posso manco dire: “vieni cà appoiati gioia mia”, perchè se t’appoi ad una pietra rotta, gioia mia, ti struppii

    2. goccia dopo goccia si scava la pietra.
      senza acquaragia..

    3. E’ la complessità che mi affascina nei tuoi pezzi. Sembrano semplici, lineari e invece deviano sempre, all’improvviso. E poi ci sono delle perle:
      “il legno di una bara è un sottile filo che lega chi non c’è più con chi è rimasto a calpestare la terra da questa parte della vita”
      oppure:
      “mancò il coraggio di stringerci in nodo, anche solo per poi scioglierlo, meglio che vivere nel rimpianto o, peggio ancora, nella nostalgia di ciò che non è mai stato”
      Davvero, qualcuno scriveva che aspetta i tuoi nuovi post come si attendevano i fumetti di Andrea Pazienza, o il nuovo disco del gruppo preferito. Ecco, è un pò così, per me. E ogni volta è una sorpresa. Ciao Davidù

    4. Bellissimo il tuo post…ancor più bello leggerlo con sottofondo la canzone “Just the way you are”…un film!
      Grazie per la magia…

    5. Bellissimo e profondo

    6. mi piace il tuo sguardo sulle cose del mondo

    7. Fare ancora i complimenti a me frati davidù mi sembra superfluo,invece rifletto sul fatto che ad ogni suo scritto,qualcuno ,vuole dimostare che anche il suo ciriviaddu,sa scrivere e pensare,lo abbiamo capito,ma senza offesa,pa camuara,gli applausi,sono tutti per Davidù,picchi si miarita.
      Un abbraccio sangò

    8. Ho una voglia matta di scatenare un putiferio.
      Ma non lo farò.
      Quindi dirò ancora una volta che questo post mi è piaciuto un pochettino.
      Ma ino ino.
      Accussì si scatena l’iradiddio…

    9. Compà, quando avrò l’onore da conoscerti, un cafè pagato mio|
      Bravissimo!
      Ma perchè non ci fai un libro con questi racconti stupendi?

    10. Dannazione a te e alle tue parole che pungono il cuore, Davidù… ogni volta è sorpresa, ed io mi ritrovo davanti al computer con gli occhi lucidi…

    11. CLAP! CLAP! CLAP!
      un giorno mi spiegherai come fai a fare sempre centro, o, meglio ancora, a fare sempre gol da tutte le posizioni, davidù

    12. c’è qualcosa che lega tutti i tuoi scritti su questo sito… come se il disegno a poco a poco inizia ad intravedersi… invito tutti a rileggere gli altri… non penso sia solo una mia impressione… comunque, chapeau

    13. Mani che si guardano…
      Mani che non pregano
      mani che si asciugano toccandosi all’ascolto di un sapore.
      Corpo che rimbalza come un gatto che salta con piedi prensili da un suolo che non sembra respingerlo…
      Lenzuola che poggiano come i petali di rosa accarezzano sfiorandosi gli uni agli altri.
      Dita come spine, capello come fiamma che lascia un tempo in sospensione.
      COMPASSO che disegna per terra un giro e accompagna la geometria di un dribbling della testa fra i cuscini,
      con occhi che sanno cercare come biglie quanto scopare!
      (…)
      e piedi che è lecito solo guardare in quel tempo in levare.

    14. bravissimo

    15. Compare ti facisti aspittare…. ma la valanga di parole che hai scritto è veramente disastrosa! cià

    16. C’è un brano di dostojevskii, che sicuramente conosci Davidù: il grande inquisitore, dai “fratelli karamazov”, che parla di come non ci sia senso nel dolore dell’infanzia, dei bambini… ecco: mi hai ricordato quelle pagine. Ma la mia parte in assoluto preferita di “febbraio” è quando parli di N., che potrebbe essere la storia che è sfuggita ad ognuno di noi. A me almeno è successo con V., che sta per Vincenza, ed è vero: meglio fallire che vivere nel rimpianto di ciò che non è mai stato.
      Ciao

    17. Non sono siciliana dunque quello che scrive Davide prima lo leggo ad alta voce facendo molta attenzione alle parole sconosciute, le rileggo più volte modulando gli accenti, poi leggo il tutto di nuovo e non c’è bisogno di musica. Che importa se non ho capito tutto… Lui suona, balla e recita per noi.

    18. Sì ‘u mieagghio, cuscì… ti intìsi puru nna radiodue avantiari ca parlavi ru Paliermo… sugnu orgoglioso di avere unu come a ttìa ca nni rappresenta runnegghiè

    19. bello come un cinemautografo

    20. bello come un petalo e doloroso come una spina

    21. bello sì.
      m’immagino sempre, oltre alla storia del racconto, anche Davidù in 3D che la racconta.
      sento e vedo con una certa precisione
      la voce che si modula parola per parola, intona la melodia del palermitano, le mani “ballerine” che fanno disegni nell’aria, gli occhioni che le seguono…
      è bella questa dimensione attoriale aggiunta ai racconti scritti.
      è bello che questo racconto sia finalmente arrivato!
      ciao ciao Davidù

    22. anja ti vuoi svelare? mi pare che tu scriva con lo stesso stile di Davide. Lo conosci? le tue parole disegnano “corti” piccoli piccoli, così come Davide traccia un “semilungo” con i suoi racconti.

    23. svelare? e che?
      bho. sotto il velo ci trovi soltanto due occhi, per coincidenza verdi 🙂 , che guardano con ammirazione Davide e il suo lavoro.
      tutto qui.
      buona giornata fantasia!

    24. V. come Valentina…come Vincenza…
      ma N. sta per?…e Z.?
      ma chi ama truvari na formula d’AMMMOREEE?
      e mi fermo qui dal momento che il mio post precedente non è stato pubblicato, senza dare alcuna motivazione
      saluti V. come vittoria…vita…vite…Vino…Vetrata…VERITA’…verde…come gli occhi di milioni di VIVENTI…
      ps: tanto per FORMULARE…V. come…spiaci a daVidù.

    25. Ciao Valentina. Il tuo commento precedente è stato rimosso perché violava la policy dei commenti che ti invito a leggere con attenzione prima di scrivere nuovamente.

    26. N sta per Z che dorme.
      o viceversa.

      Va bene come soluzione grafoenigmistica?

      🙂

    27. N.O.

    28. V=Rxi
      riuscire a eliminare la resistenza,il rimpianto
      per lasciarsi condurre da un unica energia..come uN Vortice .
      a quel punto ti sarà chiaro tutto l’alfabeto,cara Vpuntato.

      Davidù vai a cantare pure tu a sanremo che con tutto sto seguito vinceresti:non ho dubbi.
      a fra x mesi

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