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giovedì 28 mar
  • La proprietà transitiva della disuguaglianza

    (storiellina amorale in cui indovinate chi se la piglia in culo?)

    Lui era fatto così, non era colpa sua. L’avevano abituato fin da piccolo a chiedere aiuto a Suo Cugino. Tutti (quasi tutti) temevano Suo Cugino. Suo Cugino parlava e tutti “Braaaavo Signor Cugino”. Suo Cugino raccontava barzellette e tutti “Ahahahahah, minchia cianchi Signor Cugino”. Era uno simpatico, Suo Cugino. Organizzava nella sua villetta festazze indimenticabili, cantava canzoni di sentimento e (si è già scritto) amava raccontare barzellette. Adorava stare al centro dell’attenzione, Suo Cugino. Poteva permetterselo. Era ricco, Suo Cugino, ricchissimo, talmente tanto impicciolàto che era impossibile sapere con certezza dove nei suoi confronti finiva il rispetto e dove iniziava la strategia dell’adulazione per tornaconto personale. Ma lui a Suo Cugino lo rispettava davvero dal profondo del cuore. In fondo, era merito suo se era a capo della piccola città-col-nome-di-porto. E poi, suo Cugino stampava certe festazze che a lui ci piacevano tantissimo, più che andare in barca e più che sorseggiare tra amici compiacenti qualcosa di fresco alla locanda. Sì, lui a-do-ra-va le festazze del Cuginone. Ma ciò che davvero lo faceva impazzire di piacere era: ridere. Lui rideva sempre. Godeva di questa immagine di se stesso tutto sorriso. Passava ore e ore e ore davanti allo specchio a sbiancarsi i denti. E rideva, rideva, rideva. Adesso, ahilui, era qualche ora che non rideva più. Era successo un piccolo problemuccio. Un ingargetto. Nella fastidiosa città-col-nome-di-porto qualcosina non era girato per il verso giusto. No, stavolta la colpa non era di quegli zoticoni dei suoi cittadini, no. Loro si accollavano tutto: il traffico chiuso alle carrozze poi riaperto poi richiuso poi riaperto, che intanto che ‘sta girandola chiudi-apri andava avanti erano stati costretti p’una mano a pagare a testa15 denari per un pedaggio che mai si fece. I denari, come è ovvio, non furono mai più restituiti. Sì, è vero, ci furono bla bla bla e moti di sdegno, ma si sa, alla fine la storia aveva insegnato che gli abitanti della smemorata città-col-nome-di-porto si accollano di tutto e di più. “Guarda un po’ -pensava tra sé e sé osservando il ghiaccio sciogliersi lentamente nel bicchiere pigramente tenuto nella mano destra- si sono accollati pure quando abbiamo smesso di raccogliere i rifiuti nonostante loro avessero già pagato per questo servizio”. Questa ultima considerazione lo fece sobbalzare un attimino. L’argomento “piccioli” lo riportava sempre a pensare a Suo Cugino. Lui stravedeva per Suo Cugino. Era eternamente circondato da donne così giovani e belle. E poi piaceva tanto alle persone, aveva una parlantina ottima e minchia festazze… sì, ci sapeva proprio fare. Lui invece mica tanto. Infatti era un po’ che non si faceva vedere nella distratta città-col-nome-di-porto. Se ne stava rinchiuso in casa a giocare, da solo, un gioco strano in cui si colpisce con un pezzo di legno una pallina gialla. La semplicità lineare di quel gioco lo faceva sentire bene, non c’erano problemi che lo angosciavano dentro i morbidi confini di quel gioco, non si parlava di lavoro o salute o cultura in quei momenti, no. Quando sentiva il suono sordo che il legno creava quando colpiva la pallina, quel suono gli apriva il viso in un sorriso se possibile ancora più grande. Nelle notti buie amava pensare che dentro di sé, nella sua testa, i suoi pensieri più intimi e profondi possedevano quel suono sordo e rassicurante. Allora dormiva benissimo.

    Invece adesso era successo un bordello! Ora, lui non aveva capito se era colpa dei cavalli che mangiano assai (“bestie di merda”, pensò, ma poi se ne pentì, si diceva che Suo Cugino amava i cavalli, soprattutto gli stallieri), se era colpa delle carrozze e della loro continua manutenzione, ma alla fine, strincèndo ‘u sùco, il problema era che non c’era più biada per i cavalli né chiodi per le carrozze. Il risultato era che nessuno era più in grado di levare la munnìzza. Il primo impulso (com’era quel proverbio che dice che il primo impulso è sì impulsivo ma è quello giusto?), il primo impulso fu: la colpa è di chi amministra cavalli e carrozze. Fu talmente contento di questa intuizione che si regalò davanti allo specchio uno dei suoi più sfavillanti sorrisi. Si sentì così bene che di colpo nulla esistette più, non il problema della biada mancante, non le carrozze rotte, non la città agonizzante tra i rifuti. Lui rideva e stava così bene. Dolce suono di pallina che rimbalza nella testa. Il risveglio dall’idillio fu improvviso e poco piacevole. “Il popolo si lamenta r’u fèto”; dissero brutalmente i suoi consiglieri, gente spiccia abituata a bere volgarità, incapace soprattutto di colpire al volo col legno le palline gialle che rimbalzano. Ma se lui era ancora lì, al potere, era perché era appoggiato da loro, tutti devoti di Suo Cugino, e loro lo mantenevano saldamente al potere solidarizzando sempre con lui e mai con quegli zotici dei cittadini (anche se, a onor del vero, qualche minchiatuccia era stata commessa, ma l’importante era continuare ad affermare che “tutto va bene, tutto è perfetto, la colpa è di quello che c’era prima, cornuto lui e tutta la sua razza”, e poco importa se loro per una insolita triangolazione astrale erano al potere dappertutto: città-regione-stato. Loro, i consiglieri, là stavano, fedeli a lui e a Suo Cugino. Peccato avessero giurato fedeltà alla afflitta città-col-nome-di-porto, ma chìsta è n’àutra storia e non ora non qui.

    “So come risolvere il problema del fèto”, si pavoneggiò lui davanti ai consiglieri. Rideva ed era felice. Era il suo momento. Tutti lo osservavano in un silenzio carico d’attesa. Li avrebbe sorpresi con la sua sagacia. Ma non subito. Prima avrebbe sorriso a tutti. Tre quarti d’ora dopo, appena ebbe terminato, pronunciò solenne la sua brillante riflessione: “Miei fidi consiglieri, la soluzione al problema munnìzza è: facciamola pagare a chi ha male amministrato cavalli e carrozze!”. Prese il silenzio dei consiglieri come un plauso alla sua genialità. Sorrise così intensamente che in testa gli esplose un concerto di palline. Era così felice in quel momento che desiderò persino morire, lì, davanti a tutti, all’apice dell’ostentazione del suo talento. Il risveglio dal sogno fu però duro e violento come quando si arrocca una pallina e non si può più fare quel giochino che a lui piaceva tanto.
    “Non possiamo incolpare l’amministratore di carrozze e cavalli”, dissero in coro freddamente tutti i consiglieri.
    “Perché?”, balbettò lui incredulo.
    “Perché lo hai nominato TU. E sarebbe come ammettere una TUA colpa”.
    “Minchia danno”.
    “Minchia sì”.
    “E ora che ci conto a Mio Cugino?”.
    Quella notte dormì malissimo. Sognò addirittura di lavorare.

    Suo Cugino abitava lontano, in un posto chiamato la-villa-che-manco-nei-fumetti. Andò da Suo Cugino senza sorridere. Sapeva che quegli zotici dei suoi sudditi avevano già pagato, e pagato il giusto. La colpa del danno era di una màla amministrazione. E poi, ‘sti cavalli, ma quanto minchia mangiano… Ma se c’era qualcuno che aveva piccioli a tignitè, quello era Suo Cugino. Ci poteva giurare. Purtroppamente non era (più) così. Suo Cugino aveva da poco venduto il fuoriclasse della sua squadra di galli da combattimento. Chichì si chiamava quel galletto. Bello, elegante, letale. Suo Cugino l’aveva giurato davanti a tutti: io a Chichì non lo venderò MAI. Infatti tempo quattro mesi e ualà!, passò un mercante spagnolo, ci posò un fràcco di piccioli rinnànzi ed il galletto Chichì non c’era già più, sparito, via, olé. Adesso la situazione era un po’ più grave. Suo Cugino era abile a promettere. Prometteva sempre. A volte, parlava addirittura di miracoli. Una promessa solenne fu: “meno gabelle per tutti”. Ma qui si trattava proprio di alzare le gabelle! Lui in quel momento maledì la sua posizione, ma perché non potevano lasciarlo in pace a colpire palline gialle che rimbalzano? Ah, vero, lui era a capo della fastidiosa città-col-nome-di-porto. Si fece forza ed espose il problema a Suo Cugino.
    Poi Suo Cugino gli parlò, lui annuì tutto il tempo e, tranquillizzato, riprese la strada per l’ingrasciàta città-col-nome-di-porto.
    Aveva ottenuto quello che voleva: una legge speciale per alzare le gabelle a tutti i cittadini della assoggettanda città-col-nome-di-porto. Le promesse? Le promesse sono parole, e le parole hanno il peso del vento. La libertà? E non è libertà alzare le imposte? E poi, diciamocelo francamente, ma quanto cazzo mangiano ‘sti cavalli, eccheminchia!
    La via del ritorno era splendida, la sua barca era sapientemente governata da un abilissimo marinaio e le onde erano culla e carezza. Gli era perfino tornata la voglia di ridere. Mormorò tra sé e sé, solenne ed intenso: “Com’è che recita quell’antico adagio? Ah, sì: lo zotico si accolla di tutto, e di più, basta che tu prometti e ce l’avrai sempre in mano e messo bello a novanta gradi, eh eh eh”. Fu così che rientrando nella calpestata città-col-nome-di-porto smise di domandarsi se l’avrebbero rieletto. Non importava più. Adesso sapeva. Non era questa la domanda. Lui aveva le spalle coperte, i consiglieri erano da sempre pronti a spalleggiarlo e, soprattutto, lui adesso possedeva la forza di una grande verità comunicativa: negare, negare sempre, negare soprattutto l’evidenza, tanto alla fine non vince chi ha ragione, vince sempre e soltanto il più forte. E la forza (cioè il denari) erano dalla sua parte.
    Sorrise al massimo delle sue possibilità, si versò da bere ed immaginò una montagna di palline da colpire. La notte prima di alzare le imposte dormì benissimo. Sognò di una città che affogava nella sua stessa merda.

    Palermo
  • 37 commenti a “La proprietà transitiva della disuguaglianza”

    1. Fratello mio sei uno spettacolo,arrizzanu i carni.
      Quando passi da Roma??

      Proprio ieri sera parlavo di te con lollo Franco….

      sei un grande che Dio ti salvaguardi sempre.

    2. FANTASTICA!

    3. Davidù, scusa l’arrubbatina di spazio, e che volessi dedicarci una canzona cantata colla lingua del cuGGino.
      *************************
      HO VISTO UN RE. (E.Jannacci).
      .

      Dai dai, conta su…ah be, sì be….
      – Ho visto un re.
      – Sa l’ha vist cus’e`?
      – Ha visto un re!
      – Ah, beh; si`, beh.
      – Un re che piangeva seduto sulla sella
      piangeva tante lacrime, ma tante che
      bagnava anche il cavallo!
      – Povero re!
      – E povero anche il cavallo!
      – Ah, beh; si`, beh.
      – è l’imperatore che gli ha portato via
      un bel castello…
      – Ohi che baloss!
      – …di trentadue che lui ne ha.
      – Povero re!
      – E povero anche il cavallo!
      – Ah, beh; sì, beh.
      – Ho visto un vesc…
      – Sa l’ha vist cus’e`?
      – Ha visto un vescovo!
      – Ah, beh; si`, beh.
      – Anche lui, lui, piangeva, faceva
      un gran baccano, mordeva anche una mano.
      – La mano di chi?
      – La mano del sacrestano!
      – Povero vescovo!
      – E povero anche il sacrista!
      – Ah, beh; si`, beh.
      – e` il cardinale che gli ha portato via
      un’abbazia…
      – Oh poer crist!
      – …di trentadue che lui ce ne ha.
      – Povero vescovo!
      – E povero anche il sacrista!
      – Ah, beh; si`, beh.
      – Ho visto un ric…
      – Sa l’ha vist cus’e`?
      – Ha visto un ricco! Un sciur!
      – S’…Ah, beh; si`, beh.
      – Il tapino lacrimava su un calice di vino
      ed ogni go, ed ogni goccia andava…
      – Deren’t al vin?
      – Si`, che tutto l’annacquava!
      – Pover tapin!
      – E povero anche il vin!
      – Ah, beh; si`, beh.
      – Il vescovo, il re, l’imperatore
      l’han mezzo rovinato
      gli han portato via
      tre case e un caseggiato
      di trentadue che lui ce ne ha.
      – Pover tapin!
      – E povero anche il vin!
      – Ah, beh; si`, beh.
      – Ho vist un villan.
      – Sa l’ha vist cus’e`?
      – Un contadino!
      – Ah, beh; si`, beh.
      – Il vescovo, il re, il ricco, l’imperatore,
      persino il cardinale, l’han mezzo rovinato
      gli han portato via:
      la casa
      il cascinale
      la mucca
      il violino
      la scatola di kaki
      la radio a transistor
      i dischi di Little Tony
      la moglie!
      – E po`, cus’e`?
      – Un figlio militare
      gli hanno ammazzato anche il maiale…
      – Pover purscel!
      – Nel senso del maiale…
      – Ah, beh; si`, beh.
      – Ma lui no, lui non piangeva, anzi: ridacchiava!
      Ah! Ah! Ah!
      – Ma sa l’e`, matt?
      – No!
      – Il fatto e` che noi villan…
      Noi villan…
      E sempre allegri bisogna stare
      che il nostro piangere fa male al re
      fa male al ricco e al cardinale
      diventan tristi se noi piangiam,
      e sempre allegri bisogna stare
      che il nostro piangere fa male al re
      fa male al ricco e al cardinale
      diventan tristi se noi piangiam!

    4. Davide caro, la devi recitare.

    5. Affogare nelle proprie deiezioni pardon merde è il trionfo dell’entropia .Suvvia, cosa c’è di più naturale?

    6. …davvero amaramente grandiosa…complimenti….
      si, forse ci resta solo l’arma del dileggio…abbandonata la speranza di moti, nuovi Vespri (che è ciò che a questo punto si meriterebbero…ma non si può mai dire in base a quanto esaspereranno la popolazione, e fossi in loro un po’ preoccupato sarei), forse l’unica è quella di spernacchiarli, metterli alla berlina…ma sopratutto di ricordarsi bene di tutto ciò al momento delle elezioni…

    7. Grande Davidù. Da mettere dentro un tuo spettacolo!
      All’ultima tua riga: “Sognò di una città che affogava nella sua stessa merda”, personalmente aggiungo “Si svegliò e si rese conto che il suo sogno era diventato realtà”.

    8. bellissima!

    9. gli piacciono prorpio le feste… so che quando lui e il suo “amico dei cannoli” vanno nella capitale per le festicciole, l’indomani all’alba quando arrivano, hanno bisogno di qualcuno che li aiuti a scendere le scale dell’aereo… troppo sonno?

    10. E poi rimirandosi allo specchio si domandò:
      “Specchio specchio delle mie brame chi è il più bello del reame ? ”
      E stavolta lo specchio rispose :
      “Tu e con quella bocca puoi dire ciò che vuoi!”
      ……..
      Bravo Dav,
      e bravo Goku/Iannacci

    11. mi so svegliata , diciamo normale, sapendo di affrontare una normale giornata di galleggiamenti fogniari, poi vado a leggere le ultime esternazioni del dentuto allegrone e il latte che avevo preso mi si trasforma in burro nella panza. poi ti leggo e rido forte… grzzzzzzzzzz!! è fortissima solo che i diretti interessati nn hanno mica la sana ironia di capire la cosa e di ammucciarisi dignitosamente.
      buongiorno palermo .

    12. ECCEZIONALE!

    13. Ottima dialettica, rende più che bene l’idea dell’idillio politico, umano, nonchè sociale in cui ci troviamo a vivere oggi come ieri. Come sempre. Fantastica l’ironia, l’arte del simulare e del dissimulare, che dona alla scena un’aria di leggerezza, dietro la quale si cela… la nefandezza più assoluta.

    14. Amaramente stupenda. Sei sempre bravissimo. Quella del gallo chichì è troppo bella!
      Vediamo se avranno davvero il coraggio di raddoppiare l’addizionale Irpef oggi.

    15. Ironica al punto giusto.. strappa un sorriso ma quanta triste verità nella tua storiella.

    16. Meravigliosa è dir poco.
      Solo un appunto: Suo Cugino più che amare gli Stalloni…amava gli Stallieri…ihihih

    17. Come è potuto succedere che una terra così bella si sia fatta rapinare di tutto??

    18. Complimenti è bellissima.
      Ha un solo difetto: è troppo reale….

    19. Sig. Enia, quando tu scrivi di politica, bada bene, lo so che non scrivi di politica ma si chiama annatra maniera. Bene, quando tu scrivi di protestazioni io ho sempre evitato di commentare perché, non lo so, ma ti trovavo un po’ bordellain. Capisco il tuo vunciamento, capisco il tuo impegno, capisco che è il tuo dovere/diritto essere siddiato di tutte queste buffonate, e ti capisco caro mio fratello quasi gemello. Stavolta però hai avuto la capacità di farmi interessare al problema caro fratello mio di sangue. Te ne sei uscito come al tuo solito e ti devo dire che mi sono divertito a leggere il tuo coraggio sincero.
      Mio caro fratello di concetto. Nel culo e scusatemi se sono così fine, io, ancora-ancora, me lo posso pure accollare di pigliarmela.
      I miei figli (che sarebbero i tuoi nipoti alla lontana) no. Non lo meritano, sono nichi. Non li posso mettere nelle condizioni di farsi stuprare e sputare.
      Caro fratello mio concreto, in fin dei conti stiamo parlando di evitare l’inculamento da parte di 4 macallei che vengono appoggiati, vuoi o non vuoi, da centinaia di migliaia di cosinutili. Io non me la sento caro fratello di battaglia. Troppo tempo ci sarebbe da dedicare alla pugna. Tempo, risorse e sacrifici che dovrei togliere ai miei figli per cosa? Per preparare il terreno ai figli dei miei figli? Caro fratello. A me dei figli dei miei figli non me ne fotte una bella minchia. A me fotte dei miei figli. Sarà per me motivo di pace, quando morirò, avere la certezza che iddi campano in maniera degna e onesta perché questa eredità la possano trasmettere ai loro figli e io ce li devo mettere nelle condizioni di…
      Qua non ci sono neanche le condizioni precarie né, a quanto pare, la voglia da parte della maggiorparte di potere costruire cose serie.
      Non è codardia ma constatazione dell’impossibilità a… bla bla bla, ‘u sai com’è.
      Una cosa però la posso fare. Se un giorno decidiamo che ci dobbiamo andare a rompere le corna io un ultimo tentativo lo faccio per la stima e l’affetto che mi lega a te. Però mi devi dire: Totò amunì, andiamo a sgangaricci ‘u culu a sti 4 macallei.
      Tu, secondo me, la tua penna gliela puoi benissimo infilare su per il culo, ma iddi sono talmente spunnati che, secondo me, non sentono nulla. Però se aggiungiamo alla tua penna la mia, pur modestissima, e chidda di chiddi che hanno la voglia e se l’accollano, di aggiungercela a chisti secondo me il culo ci comincia a fare un po’ di plurito.
      Io se vuoi ci sto ma di lontano perché di vicino non sopporto la puzza.
      Ciao caro fratello, quasi gemello, mio.

      Prego affinché Dio possa continuare a proteggere la tua penna.

    20. Che tristezza.. non per Palermo, ma per i Palermitani, come adesso, qui.

      http://www.facebook.com/home.php?#/group.php?gid=57195878458&ref=mf

    21. Nella vita è bello essere in grado di ricredersi delle proprie opinioni.Avevo spesso criticato alcuni post di Davide ed ero stato attaccato di gelosia e altro.
      Questo post è davvero meraviglioso di per se’ ed inoltre mi ha fatto capire le caratteristiche del tuo stile che fino ad oggi ( probabilmente perchè non ti conoscevo bene) non apprezzavo. L’unica cosa…che non ho capito…ma a questo cugino …piacevano i cavalli o le cavalle???

    22. semplicemente s p l e n d i d o!!!!!!!!!!!!!!! almeno mi torna il buonumore.grazie

    23. davidù, sei un genio!

    24. l’ho condivisa su fessbuc

    25. Zu Davide sindaco di Palermo!!!!!!!!!!

    26. sapete cos’e’ che ci rende unici e cisalva a noi panormiti?????? Il fatto che riusciamo a ridere mentre ci inc……..lano!!!!!!!!! Beh almeno in questo siamo fantastici!!!!

    27. standing ovation…

    28. Voi palermitani sieti finiti in un ” CUL-DE-SAC “.
      Mentre Dieguito celebrava la città più COOL
      aumentò l’irpef con autorità da min.cul.pop.
      (…)

    29. God bless Enìa.

    30. Fantastico! Un saluto a tutti i miei cari amici dell’amata città-col-nome-di-porto (anche se affogata di munnizza)!

    31. tu scrivi da dio, lo sai, no?
      uno dei post più intelligenti di sempre!
      Geniale

    32. … bello, bellissimo! Ma a mia mi veni i chianciri!

    33. sei un genio!!!

    34. dopo 385 anni, Pa ha bisogno d un altro miracolo…

    35. Enia, il più grande autore di ROSALIO degli ultimi 150 anni! (eh eh eh)
      Gran post, babbìo a parte

    36. sei un genio!

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