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venerdì 19 apr

Archivio del 19 Agosto 2006

  • Canditi per sempre

    Non si può decidere che fine fare. Se sei cattolico e palermitano però la tua ultima dimora già la conosci: Santo Spirito o i Rotoli, se sei fortunato eccoti padrone di una cappella di famiglia con un posto fisso – che magari non hai mai avuto nella vita –, sicuro. Una volta andati non è facile lasciare ai vivi il compito di accontentarti, ci vuole la tempra di credersi fondamentali pure da trapassati, da far combinare un casino: essere cremarti e disperdersi per il golfo di Mondello, per esempio (sarà legale?, che imprissiuni, farsi il bagno in mezzo alle ceneri!) da scomodare notai, ordinamenti giudiziari, redigere testamenti. Io non conosco nessuno che lo faccia, redigere testamenti intendo, sono affare comune e io non conosco una persona sola che l’abbia steso, forse è una pratica da coltivarsi in gran segreto. D’altronde, in vero carattere panormita, che me ne fotte a me? Dico, quando sarò morta sarà arrivato il vero momento di fregarsene, incrucchiuluta lascerò agli altri il compito di occuparsi delle spoglie immemori. Non lascio scritto niente, ancora da leggere devo dare ai poveri malcapitati? Pure da morta? Però qualcosa sogno. E la sogno quando entro nella pasticcerie cittadine che odorano di vaniglia e cannella, pistacchio e mandorle, quando mi perdo nel tripudio della ricotta, della crema gialla, nella fragranza della millefoglie, fra i canditi lucidi e accecanti del cannolo e della sfinge di San Giuseppe. E qui mi fermo. Nei canditi, nella frutta cristallizzata nello zucchero. Questa è la natura morta che mi interessa, altro che tele degli impressionisti. Solo i canditi mi riguardano: nei colori, nella preparazione, nella durata, nella guarnizione a raggiera delle cassate. Anche se vengono scansati, delle volte, ricevono l’ammirazione di chiunque. Come ultima volontà vorrei morire addolcita, imbalsamata come Biancaneve, come la Bella addormentata nel bosco, vorrei, per sempre, farmi candire, diventare trasparente come un’amarena o una scorza d’arancia, superflua, sciropposa, scenografica; e restarmene lì, in una vetrina, tutt’uno con la pasticceria siciliana.

    Palermo
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