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  • Ritrovate a Termini Imerese alcune pergamene antiche

    Ritrovate a Termini Imerese alcune pergamene antiche

    Durante alcune operazioni di tutela e valorizzazione degli archivi non statali svolta dalla Soprintendenza archivistica di Sicilia nella Biblioteca Liciniana di Termini Imerese è stato compiuto un ritrovamento di documenti che vanno dal XII al XVI secolo. Si tratta di una pergamena araba del 1112, pubblicata nel 1868 da Salvatore Cusa e considerata dispersa, dieci pergamene greche del XII e XIII secolo, quattordici pergamene latine, due delle quali risalenti al 1197, e altre carte che riguardano l’insediamento a Palermo, voluto dal viceré De Vega e ostacolato dall’Inquisizione, della Compagnia di Gesù nella seconda metà del XVI secolo.

    I documenti appartenevano all’Abbazia greca di S. Maria della Grotta di Palermo che sorgeva lungo il corso del fiume Kemonia.

    Le pergamene saranno inserite nel Archivio Storico Multimediale del Mediterraneo

    Palermo
  • 9 commenti a “Ritrovate a Termini Imerese alcune pergamene antiche”

    1. Questi ritrovamenti sono storicamente importantissimi. Dimostrano fra l’altro come sino al 1200, forse sino al 1300, una parte cospicua della popolazione siciliana parlasse e pregasse ancora in greco, pur dopo secoli di occupazione araba e poi latinizzazione normanna e sveva. Da qualche parte ho letto che nel XV secolo ci fu un’ondata incredibile di atti notarili in cui si traducevano vecchie pergamene dal greco al latino, segno inequivocabile che di quella lingua si stava ormai perdendo memoria nella società siciliana. Restavano la chiesa siculo-greca basiliana, che sarebbe sopravvissuta sino alla fine del XIX secolo. E, grazie alla quale, ancora oggi l’Arcivescovo di Messina porta il titolo, oggi solo onorifico, di Archimandrita di Sicilia.
      E’ un pezzo importante della nostra identità, che non ha soluzione di continuità da quando gli antichi coloni greci misero piede per la prima volta in Sicilia nel VIII secolo a. C. e forse ingiustamente rimossa.

    2. non sono uno specialista (mi scuso anticipatamente con gli addetti ai lavori) però da quello che ho osservato in questi anni mi sembra di poter dire che i sicialiani abbiano questa pronuncia proprio perché gli deriva dalla forte impronta del greco sulla gente. Lo dico perché ho notato che nella calabria meridionale e nel salento, dove c’è stata una presenza greca pervasiva, si pronuncia l’italiano così come in sicilia. E’ un’ osservazione sbagliata? mi piacerebbe avere l’opinione di un esperto.

    3. E’ proprio così. Secondo alcuni linguisti il Calabrese e il Salentino sono “dialetti” del Calabro-Siculo, e l’unica cosa che politicamente queste tre regioni hanno avuto in comune è stata la forte presenza greca.
      La lingua romanza che vi si parla (parlava, se consideriamo la sua regressione a dialetto) è il “latino parlato dai greci”. Cioè un latino su un substrato greco. Così ad esempio la r iniziale raddoppiata e aspirata è esattamente il Rho greco iniziale che chi ha fatto il classico ricorderà che aveva sempre lo spirito aspro, cioè l’aspirazione.
      Ma il siciliano ha sue particolarità ancora più antiche del greco (probabilmente “sicule”) che infatti sono assenti in quelle due regioni. Tra queste la doppia ll che si pronuncia ddh, non semplicemente doppia dd.
      Davvero per queste regioni parlare di “dominazione greca” non ha senso. E’ più corretto dire “colonizzazione greca”. Comunque anch’io sono un dilettante e non un esperto linguista.

    4. Desidero ringraziare Massimo e Fabio che dimostrano quanto sia basilare la conoscenza delle nostre ” radici”, storiche e linguistiche. Sembra che il latino non abbia attecchito in Piemonte come in altre regioni del sud.Non parliamo del greco ovviamente, quì praticamente sconosciuto. Anche in Piemonte ci sono associazioni che curano lo studio della lingua, soprattutto del piemontese. Si parlava diffusamente oltre gli attuali confini. Ancora oggi negli stabilimenti, nelle officine,nei condomini, nei bar, e soprattutto nelle campagne,nei ristoranti delle varie località fuori città,nei paesi i vecchi come i giovani usano esprimersi in ” piemonteis”.Per loro è la loro lingua, che li distingue dagli ” altri”. Quindi la lingua italiana, è ritenuta importata ed imposta, passa in secondo ordine di valore ” linguistico puro ” . Che ne pensate voi, lettori? Grazie Michele Sequenzia-Torino

    5. che e’ meglio se ti fai una full immersion
      in italiano.
      saluti

    6. @ Michele Sequenzia.
      La riscoperta del Piemonteis non ha nulla di male, anzi.
      Il punto è che spesso questi discorsi nascono e muoiono in politica. E per difendere questa o quella posizione si sostengono tesi più o meno assurde. Il Siciliano è una lingua neo-latina (o il siculo-calabrese-salentino, se vogliamo) innestata su di una precedente parlata greca. Se il greco non fosse scomparso dall’estremo sud e dalla Sicilia oggi non ci sarebbe solo una lingua neo-greca, ma forse due, come ce ne sono tante neo-latine. E infatti il grico del Salento e il grecanico della Calabria (ormai quasi scomparsi) sono tracce di quell’epoca giunte sino ai nostri padri.
      Veniamo al Piemontese. E’ falso affermare che il latino in Piemonte si sia affermato meno che in Sicilia (vero è invece che il greco vi è sempre stata lingua straniera). L’unica differenza sta nel substrato.
      I dialetti di tutto il Nord-Italia, comprese le Marche del Nord, guarda caso sino a Senigallia, sono il risultato di un latino parlato questa volta non dai greci, bensì dai Galli Cisalpini. Ma, cambiando il substrato, il risultato è lo stesso. La relativa assonanza tra le parlate “padane” e quelle francesi, sia occitane che settentrionali, nasce da nient’altro che da questa base celtica comune, che, però, passando al latino, è andata distrutta. Anche in Spagna si nota questo substrato. Dove era presente un popolo mediterraneo non indoeuropeo (gli Iberi, i Lusitani) si formò una certa lingua, dove erano presenti i Celtiberi (affini ai Galli) si formò una lingua (il Catalano) assai simile al francese. Ovvio, no?
      La latinizzazione dei Celti (tra cui i nostri Galli) fu però precoce e più rapida rispetto a quella dei popoli grecofoni del Sud. Perché? Perché la cultura greca era forte, ufficiale, scritta, e poteva resistere più a lungo. In Sicilia, ad esempio, il greco non scomparve mai durante tutto l’impero romano. Mentre le lingue celtiche, più fragili (e più simili al latino di quanto non si sospetti) si frazionavano più facilmente in dialetti e poi si assimilavano.
      In questo l’Italia settentrionale fu soggetta ad una latinizzazione assai precoce rispetto ai “fratelli” Galli d’Oltralpe. Da qui la maggiore italianizzazione (piaccia o no ai leghisti di oggi). In Britannia, dove i latini stettero relativamente poco, le lingue celtiche riuscirono a sopravvivere, e ne troviamo traccia nel Gallese di oggi.
      Ma anche le parlate iberiche – preindoeuropee – riuscirono in parte a sopravvivere nelle regioni più impervie e conquistate per ultime (il Basco).
      In ultimo ho parlato di “dialetti” del nord e non di lingua, perché la vera lingua sarebbe comune a tutta l’Italia settentrionale (il “Gallo-italico”) ma questo standard non si è mai affermato per mancanza di unità politica e per varie vicende storiche. Così la comune lingua si è frazionata moltissimo in dialetti regionali e parlate provinciali, anche assai diverse l’una dall’altra e, fra queste, più vicina in relativo all’Occitano, troviamo il Piemontese. Ma quando questi paesi uscirono dall’uso ufficiale del latino e si volsero al volgare deviarono quasi subito sull’uso del toscano, che avrebbe unito linguisticamente l’Italia. Lo stesso successe ad esempio a Roma e a Napoli, già ai tempi di Alfonso il Magnanimo.
      Solo la Sicilia, e ancor più la Sardegna stavano per adottare lingue proprie e la relativa italianizzazione sarebbe stata molto, molto più tarda. In Sicilia ad esempio l’italiano fu senza ambiguità proclamato lingua ufficiale solo nel 1812. In Piemonte già nel 1556 con Emanuele Filiberto, ma prima, comunque, accanto al latino non si usava il Piemontese, bensì il francese. E il piemontese rimase a lungo lingua “dei poveri”. Le élite piemontesi, praticamente, parlarono in francese ben oltre l’Unità d’Italia, Vittorio Emanuele e Cavour compresi.

    7. Aggiungo soltanto, a riprova di quanto detto sopra, che Cesare, tra le sue riforme, concesse senza indugio la cittadinanza romana a tutti gli abitanti della Gallia Cisalpina, ad evidenza completamente latinizzati già ai suoi tempi, mentre ai siciliani concesse solo la cittadinanza “latina” (sorta di cittadinanza di serie B) perché sentiti come ancora troppo greci per essere veri cittadini romani.
      Una generazione dopo, Augusto, ingloberà definitivamente la Gallia Cisalpina nella sua Italia, non “provincia” ma “domina provinciarum”, come avrebbe recitato il Corpus Juris di Giustiniano ancora secoli dopo, mentre la Sicilia restò “provincia senatoria”, come la “Sardegna e Corsica” (queste ultime considerate “barbare”) e quindi geo-politicamente “altra cosa” dall’Italia, come tutte le altre province dell’Impero.
      Qualcosa tutto ciò vorrà pur dire.

    8. senza voler dire male delle parlate locali (dialetti), io sono decisamente amico dell’italiano.
      i dialetti sono simpatici quando si fa qualche battuta o qualche discorso pungente in ambito confidenziale.
      quando ci si viaggia troppo sopra diventano fastidiosi.
      tra l’altro vorrei far notare che questi movimenti che tutelano le lingue locali in realtà mi sembra che lavorino per un’astrazione: sostanzialmente in italia ogni 30 40 km i dialetti sono un pò differenti. loro ingenuamente vogliono standardizzare ciò che è soltanto locale e per giunta di una piccolissima area. sono d’accordo nella tutela delle parlate locali ma queste non si può pretendere di paragonarle all’italiano che ha ormai un suo standard ben preciso.

    9. Cari amici, Vi leggo con grande piacere,grazie. Avendo io gettato il sasso nelle “torbide” acque, si fa per dire, dei nostri duelli rusticani nordisti-sudisti, anche tra paeselli, assai vicini tra loro, ma divisi su tutto persino sulle minime differenti espressioni con cui ci si parla.., ne è nata una bella, assai piacevole ed istruttiva discussione. Le vostre sono acute osservazioni che mi fanno sentire bene vicino a voi.Apprendo ora molte cose che mi erano completamente ignote,anche per pigrizia credo. Mi sembra -ad ogni modo- che esista una enorme differenza linguistico-culturale tra noi che viviamo e parliamo italiano del ” nord”, Piemonte,Lombardo Veneto… e la Sicilia,esempio del Gattopardo, per essere più chiaro.Se si legge Cesare Pavese si parla in un’altra lingua. La lingua, qualsiasi lingua, è filosofia di vita, espressione vitale che ricevi da bimbo, che aspiri nell’aria e nel mare. E’ soffio che ti rende intelligente o stupido se non arrivi a comprenderlo. Se non avessi avuto l’occasione di vedere in TV ” Il Consiglio di Egitto” e leggerlo poi, ora sarei ancora più stupido di prima. Quindi è vero che lingua è espressione di vitalità, come la musica,o la pittura. Se G. M. Volontè avesse interpretato la parte di Commissario di Polizia ( Indagine di un cittadino al di sopra di ogni sospetto) in Piemonteis e non con tutte le vibranti accentuazioni della forte parlata sicula, il risultato sarebbe stato assolutamente diverso.Una vera catastrofe.Lascio a voi la parola,Vi auguro una bella e proficua serata. Grazie ancora.

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