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giovedì 28 mar
  • Per grazia ricevuta

    Erano mesi che la signora Rosa aveva smesso di dormire, di mangiare, di vivere, ossessionata dal sospetto che il marito, Pino, la tradisse con una collega di lavoro.
    Lui si occupava della manutenzione di un grande magazzino, sulla circonvallazione, e la presunta amante era una delle addette alla pulizia. Era molto più giovane di lui, sposata e madre di due figli, e secondo la signora Rosa aveva irretito il marito soltanto per spillargli soldi e sigarette.
    «Forse iddu si sente lusincato picchì quella grandissima schifosa ci fa ‘i moine o forse spera ca prima o ddoppo ci esce quarche cosa…ma io sono sicura ca prima ci futti tutti i sordi e poi lo lascia come un sacco di munnizza!».
    Mi diceva quasi tutte le mattine con le lacrime agli occhi.
    La signora Rosa aveva la funzione di custode, in realtà non faceva niente se non chiacchierare con me, raccontarmi le mille peripezie della sua vita, prima figlia di nove fratelli, e prendere in giro Angelo, un ragazzo assunto da poco, molto alto, che lei definiva luongu a matula e che lei si divertiva a tormentare.
    «Angelo…ma a tia ti piacciono ‘i fimmini?». Gli chiese una volta, la prima di una lunga serie. Il poveretto alzò la testa dalla scheda che stava compilando, le guance a chiazze bianche e rosse e un punto interrogativo negli occhi, e le disse:
    «Perché?».
    «Ma non lo so…sei grande e grosso, oramai c’hai un’età e non parli mai di fimmini…ora dico io…se un masculu non c’ha la fidanzata le cose sono due o è sportunato oppure…&#187.
    A quel punto, le macchie della faccia di Angelo cominciarono a lampeggiare, insieme agli occhi azzurri che socchiuse fino a farli diventare due fessure.
    «Oppure?» domandò già stizzito.
    «Oppure…tu che dici? Macari non sono le femmine ca ti piacciono…».
    Piero si tese come un fuso, le fessure oculari si trasformarono in due palle perfettamente rotonde, sgranate, sbarrate, stirò le labbra fino a farle diventare due strisce sottili e aprì la bocca per replicare qualcosa. Ma lei lo precedette e prima che lui avesse il tempo di dire anche solo A, lo ammonì:
    «Stai attento a quello che dici sai? Ca io una signora sono e se mi insurti ce lo dico ar direttore, ce lo dico!».
    Piero si rimangiò qualsiasi cosa avesse in mente di risponderle, abbassò di nuovo la testa sulla scheda e ricominciò a lavorare. Fino alla prossima volta.
    Ma da un po’ di tempo, la signora Rosa aveva smesso anche di tormentare il povero Angelo, il pensiero del presunto tradimento del marito la stava distruggendo. Passava da momenti di profondo sconforto, durante i quali piagnucolava come una bambina orfana, manifestando tutto il suo amore per Pinuzzu, a esplosioni d’ira e di rabbia incontrollabili, in cui insultava sia lui che lei, con un repertorio di parolacce degne di essere inserite nel Guinness dei Primati degli improperi più scurrili e fantasiosi del mondo. Una volta mi disse che lo voleva lasciare, si voleva separare, che non ce la faceva più, anche perché:
    «Oramai manco più marito e moglie siamo…ca iddu non ne vuole manco a brodo di tuccarimi…e c’ho detto tutto…» mi confidò una mattina piangendo, «che quanno che mi ci spoglio di davanti…ca apposta ‘u fazzu…iddu si gira dell’attra parte con una faccia indifferente…quasi scucivula e certe vorte propria scuncirtata, signora mia!».
    E pregava, pregava la signora Rosa, che succedesse qualcosa, che il marito tornasse da lei, che quella grandissima pulla, rovinafamiglie, sdisangata, infame sparisse dalla sua vita. Nel frattempo offriva fioretti al Signore, anzi al Signuruzzu.
    Un mattina arrivò in ufficio raggiante, la faccia rubiconda era illuminata da un sorriso tanto soddisfatto quanto commosso e gli occhi verdi le luccicavano. Non riuscimmo a parlare per tutta la mattina, ma ogni tanto lei mi guardava e mi schiacciava l’occhio, ammiccava e mi faceva gesti con le mani che significavano:
    «È tutto a posto…neanche se lo immagina quello che ci devo dire!»
    Finalmente, durante la pausa pranzo, riuscii a chiederle cosa fosse successo. E questa
    fu la risposta.
    «Lei lo sa quanto pregai ‘u Signuruzzu di farici dimenticare quella grandissima schifosa e
    pulla a me maritu…sunnu mesi ca vado in chiesa tutti i giorni e ce lo chiedo…e mai
    mai mai ho dubbitato ca non mi dava conto…puru se invece di migliorare le cose peggioravano, io c’ho sempre creduto ca prima o poi me la faceva la grazia…ca lo allontanava da quella strega…ca me la arrisorveva questa situazione e ca faceva
    succedere quaccheccosa pi farici passari questa malattia dar cervello…e finarmente ‘u Signuruzzu m’ascutò e mi fici ‘u ».
    Sorrideva felice con gli occhi che le brillavano e io condividevo la sua gioia. L’abbracciai e le
    dissi:
    «Ma che bello!Sono così contenta! Ma…che cosa è successo?».
    «’U licenziaru!» mi rispose raggiante.

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