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e-mail: basilepalermo@alice.it

Biografia: Gaetano Basile, nato a Palermo il 16 novembre 1937, giornalista free lance con collaborazioni con Il Mattino, La Sicilia, Oggi Sicilia, Eques, Tutto Equitazione, Cavallo Magazine; cura delle rubriche fisse sul Giornale di Sicilia (Viva Palermo), su Kagome di Tokyo (Rivista di cucina italiana) e ACCI di Tokyo (Giornale dell’Ass. Cuochi Cucina Italiana). Direttore di “Il Pitré” (Quaderni del Museo Etnografico Pitré Palermo) e di “Babbalà” (Testata giornalistica televisiva regionale). Ha anche collaborato con testate televisive come France 3, Yleisradio Finnish Broad. Co., France Inter, ZDF, Nippon TV, RAI e MEDIASET. Autore di testi teatrali e di pubblicazioni. Fra i riconoscimenti: Targa d’argento UPT (1993), Premio Città di Monreale (1996), Premio Sicilia ’97 dell’Ordine dei Giornalisti Siciliani, Premio Telamone di Agrigento (2000), Premio Trinacria d’argento (2001), Accademico Onorario dell’Accademia Italiana della Cucina (2004).

Gaetano Basile
  • Souvenir di Palermo: i Daneu

    Recentemente ho citato la bottega dei Daneu e molti mi hanno chiesto notizie più dettagliate: a loro quel nome diceva poco e in famiglia qualcuno ricordava vagamente una curiosa bottega palermitana dalle parti della Cattedrale.
    Vincenzo Daneu arrivò a Palermo da Opicina, a due passi da Trieste, nel 1883. Aveva 23 anni, e una buona conoscenza del tedesco, francese e inglese, oltre l’italiano, che gli permise di trovare impiego presso gli Jung, con casa e uffici in via Lincoln, abilissimi imprenditori palermitani del settore import-export dell’epoca.
    Con i primi risparmi decise di mettersi in proprio comprando tutto ciò che gli eredi di una antica nobiltà immiserita mettevano, discretamente, in vendita. Solo per contanti. Furono maioliche, interi corredi preziosi, tappeti, quadri, mobili, paramenti di chiese, che s’accumularono nella bottega presa in affitto (a lueri, si diceva ancora) in via Mariano Stabile, a due passi dall’Hôtel des Palmes, che allora così si scriveva correttamente con l’accento circonflesso. Continua »

    Palermo
  • Incontri estivi sulla 101

    Al capolinea sono scesi dalla 628 che viene da Sferracavallo. Tutti agghindati da turisti: pantaloncini all’inglese rigidamente color cachi e poi camicie a fiori, alcune più sobrie Lacoste, scarponcini da maratoneta e cappellino di paglia; le signore in pantaloni e occhialoni da sole, come moda impone. Niente borsello e niente gioielli come è stato loro consigliato. Al polso orologi da pochi soldi.
    Parlano tedesco, francese, tranne quella coppia che se ne sta in disparte a osservare il nostrano assalto alla diligenza quando la 101 apre le porte. E commentano esprimendosi in bergamasco, e nel loro dialetto rispondo con le poche parole apprese nei miei lontani trascorsi in Dalmine. Sissignori: un pezzo della mia esistenza l’ho trascorso tra Brescia e Bergamo.
    È servito a farli sorridere e rompere il ghiaccio: brizzolato, pensionato/velista lui, insegnante lei, corrispondente dell’Osservatorio europeo contro il razzismo. Non vengono a Palermo dal ‘98, ritrovano una città umiliata dalla immondizia eletta a monumento, i veri monumenti imbrattati, la gente più sciatta, i giovani insopportabili come da loro. Forse per non offendermi. Continua »

    Palermo
  • Parole, parole, parole

    Sui gradini della Facoltà di Lettere, al pomeriggio, si può prendere il fresco. Occasione buona anche per scambiare due parole con coloro che la frequentano: oggetto del contendere la lupara. Per tutti si tratta del fucile a canne mozze con cui si eseguono i delitti di mafia. Ho chiarito che si tratta, in effetti, della cartuccia caricata a pallettoni con cui, un tempo, si sparava ai lupi. Estensivamente finì per indicare la doppietta a canne mozze. Anche se questo dovrebbe valere per i leghisti o giù di lì; per noi siciliani dovrebbe essere discorso chiuso. Assolutamente chiaro.
    Ma dove si evince?…mi chiede un giovane Gramsci in pinocchietto rosso, che invito a consultare un dizionario della lingua italiana. C’è.
    E non è finita. Si parla di libertà, di diritti umani e il discorso ci porta dritto dritto alla Rivoluzione francese e all’abolizione della servitù della gleba. Ve lo ricordate anche voi? Vedo facce stranite, o alluccute se preferite, che denotano un interrogativo inespresso. La gleba?…sarebbe?…
    Ragazzi, vogliamo scherzare? Avete studiato Monti, Carducci?… giovenchi invitti a franger glebe…?
    E così mi tocca ritornare alla nostra lingua per tradurla con un più siciliano timpùni per far capire che si tratta della zolla di terra (d’argilla nel caso nostro) che resta attaccata alla suola delle scarpe quando facciamo una bella passeggiata in campagna dopo una pioggerellina. Continua »

    Palermo
  • Toujours sans rancune

    Sans rancune: così avevo chiuso la mia letterina con cui le facevo notare le tre figure di merda in cui era incappato. L’ho riletta: non ho mai scritto che il suo «lavoro era assolutamente inutile se non dannoso». Dove l’ha preso? È sua deduzione? Mi sono espresso male? Per quanto riguarda la «somma volgarità del disprezzo» racchiusa certamente in quel «frisca e piriti» (fischi e pernacchie), espressa nel mio siciliano, era chiaro sentimento d’indignazione popolare, riferito a Cammarata e non alla sua persona.
    Vede, esimio professore, malgrado i tempi ruvidi in cui viviamo ci sono ancora tanti palermitani che si indignano. Verbo nobilissimo dall’etimo in-dignari, insomma non stimare degno. Concorda? Ricorderà certamente l’elogio della pernacchia della buonanima di Marotta: scrisse che sta per «tu sì la schifezza, della schifezza, della schifezza ‘e ll’uommene».
    Lei scrive di nostra «vergogna per il folklore esagerato». Le ricordo che il carrettino, assieme alla tavola dell’acquaiolo ambulante, furono invenzione di fine Ottocento di un istriano (Daneu si chiamava) che capì che i “turisti”, sbarcati dalle nostre parti dopo i colti “viaggiatori”, amavano il kitsch. Sublimato più tardi in mafiosi di terracotta e paladini bonsai; al suono di Vitti na crozza e Ciuri ciuri. Che fanno il paio con le «code di scampi al pompelmo rosa» da lei citate. Ma dove è andato a mangiare? Continua »

    Palermo
  • …povero Daverio

    Monsieur Daverio, trois c’est un peu trop… Sissignori tre figure di merda, una dopo l’altra sono veramente troppe. La prima l’ha fatta con la celebrazione della battaglia di Ponte Ammiraglio che neppure un regista da filodrammatica parrocchiale avrebbe fatto. Una vera boiata che ha fatto ridere pure i siddiati: tutto così caricaturalmente falso da suscitare ilarità. Sarebbe bastato uno spettacolo di “son et lumière” come si usa in Francia e ne sarebbe uscito qualcosa di poco costoso e più dignitoso. Anche istruttivo e divertente, se conviene con noi.
    E vabbe’, abbiamo pensato, cosa volete che ne sappia questo qua: non è mestiere suo…
    La seconda è stata la boiata del Festino coi carretti, le sante rosalie, lo strascino: pure questo a dimostrare che non era cosa sua. Peccato, ha perso l’occasione per dirlo. Non c’è niente di male. Quante volte vi sarà capitato di sentirvi offrire qualcosa per cui non siete tagliati. Basta dire no grazie. Si salva la faccia, la dignità, e si può rientrare a casa e guadare i propri familiari senza sentirsi a disagio per la vergogna di aver ceduto alla vile moneta.
    La terza è forse la più grave, se mi permette. Mettersi a battibeccare, dall’alto della sua epa, con una signora di taglia XXL non è elegante, e neppure galante. Un francese comme il faut, non lo farebbe mai e poi mai: chieda in famiglia. Continua »

    Palermo
  • …e addio “Fistinu”!

    Si saranno rigirati nella tomba “quelli del Festino”: da Paolo Amato, Nicolò Palma, Giuseppe Pitré fino a Rosario La Duca (buonanime), mentre si sarà preso a timpuluni Rodo Santoro (Dio guardi), per questo Festino 2010. Meglio non farlo, anche per rispetto ai 150 anni dell’unità d’Italia: infatti nel luglio del 1860 «non ci fu Fistinu» dicono le cronache, perché il Cassaro era ancora ingombro delle macerie dei bombardamenti borbonici che dalle navi sparavano all’urbisca lungo il Cassaro. Allora ci fu solo un Festino religioso. Ed è quello che ha proposto il nostro Arcivescovo che è persona di buon senso, cultura e di naso raffinato.
    Oggi siamo ridotti ai carretti siciliani (…e strascinu al seguito…) come si usa alle feste di paese: senza offesa per la provincia, si capisce. Nulla più della grandiosa festa di popolo fatta di sfarzo e di grandi abbuffate con la gioia espressa sui volti sudati di quelli che disposti lungo il percorso attendevano la Santuzza. Continua »

    Palermo
  • Ancila dello Zen

    Ancila per le elezioni nazionali si fece quattrocento leuri perché a casa sua sono in otto. Poi s’incazzò di brutto perché per le ultime comunali furono la metà. Quel giovanotto, sempre in giacca e cravatta, glielo disse chiaro chiaro che tanto quello lo eleggevano lo stesso con o senza i suoi otto voti.
    Le avevo suggerito di prendersi i soldi e votare per chi voleva, ma con un sorriso, solitamente riservato ai milanesi o a quelli che non capiscono niente, mi disse che non si poteva fare perché quelli se la squarano dopo due tre giorni e rivogliono indietro i soldi. Lo aveva fatto suo figlio il grande, a sua insaputa, e quando quello venne a dirle che qualcuno della famiglia aveva fatto lo stronzo lei rimase senza parole.
    Quel giovanotto è sempre gentile con tutti noi del rione e spirugghia sempre un mare di cose perché ha aderenze con quelli che stanno llà… Mi capìu?
    Quando cominciò a arricogghiri voti era disoccupato. Frequentava la parrocchia e si metteva sempre a disposizione per noi gente di una certa età: per sollecitare una pratica di mè figghiu che doveva passare una visita e ci volevano tre mesi e dieci giorni e lui ce la fece avere in tre giorni. Poi ci fu il fatto della pensione di Giuvannina, la mia vicina che non ci vede più, e si fece in quattro e ce la fece avere. E poi, le cose giuste, andava a prendermi la pensione che a lui gliela davano pure senza la delega, per arrivare fino alla carta d’identità che mi portò posto casa per metterci la firma.
    E a uno accussì che non chiede niente, quella volta che ti domanda un favore, pure pagato, chi cci rici? Continua »

    Palermo
  • Vivere a Palermo

    Per molti è piacevole vivere a Palermo. Forse perché da noi la fretta non esiste. Si comincia da piccoli, quando le mamme insegnano già ai primi passi «non correre», «adagio», «con calma sennò sudi»; mentre gli altri hanno ricevuto input diversi come «su, dai», «svelto», «muoviti», «non tardare».
    All’ombra del Monte Pellegrino ogni azione è svolta con una lentezza che assume maliarda trascendenza, come un segno di quella particolare saggezza che, di ogni attimo, fa apprezzare lo scorrere del tempo, goccia dopo goccia. Qualcosa di assimilabile allo zen. Forse è per questo che a Palermo chiunque è il benvenuto. Purché non abbia fretta e voglia di cambiare il mondo.
    È come se tutti comprendessero le solitudini e lo sperdimento altrui. Dall’Asia, dall’Africa, dal Medio Oriente, quindicimila persone hanno scelto di venire a vivere in questa città. Si sono inseriti in quel bizzarro, intrigante mosaico di colori, luci, suoni, voci, microstorie e vicende umane che qui si chiamano “centro storico”. Un luogo dove si fondono la fantasia, il degrado, la storia e l’arte. Vivono in quel groviglio incredibile di vicoli, piazzette, palazzotti fatiscenti, sbilenchi prospetti barocchi, macerie dell’ultima guerra e di crolli recenti, che sembrano messi lì apposta per un set surreale di uno scenografo fantasioso.
    Si sono appropriati del ventre abbandonato della città che conserva intatta la memoria della sua fame atavica. Quella fame che i palermitani hanno dimenticato, rimosso ai primi accenni di benessere. Sono i luoghi dove si può cogliere la contiguità fra monumenti e chi ci vive accanto. In questa Palermo mediorientale hanno trovato un clima a loro familiare, odori e profumi che sono quelli di casa, comuni a tutti quanti noi da tremila anni. Continua »

    Palermo
  • Un sogno proibito

    Non ho vergogna a confessarlo: sono un vanaglorioso.
    Mi ritengo perciò condannato senza speranza alle pene dell’Inferno. Condanna inflittami già dall’Ecclesiaste “vanitas vanitatum et omnia vanitas” vale a dire l’infinita vanità del tutto.
    E poiché vanità viene da vano cioè vacuo, vuoto, potete immaginare già quanto mi costino queste righe che equivalgono a una pubblica confessione della mia pochezza. Confessione liberatoria che mi permette di mettere a nudo, di scoprire finalmente il mio sogno proibito. Quantomeno il mio segretissimo sogno nel cassetto.
    No, non sogno assolutamente un “Premio Pulitzer” che, come sapete, è l’Oscar del giornalismo. Penserete che aspiri al Nobel per la letteratura per la mia “opera omnia”, magari postuma edizione di tanti articoli sparsi fra quotidiani e riviste?
    Non ci penso neppure; confesso però che c’entrano i cavalli…
    C’entrano in modo assolutamente speciale e neppure come fruitore delle loro prestazioni, dei loro servizi, ma come fare a spiegarvi?…
    Tenterò più chiaramente con qualche esempio. Continua »

    Palermo
  • Pumèlia

    Sporge dal balcone di casa di ogni buon palermitano degno di questo nome per averla ereditata in linea materna. Le mamme, infatti, procurano le talee alle figlie maritande per portarsi dietro quell’odore di casa in cui sono cresciute.
    Plumeria acutifolia, della famiglia delle Apocynaceae il suo nome scientifico. Fu portata, a quanto pare, dagli inglesi a Palermo nei primi anni dell’Ottocento. Il successo dovette essere immediato visto che prosperò sugli “affacci” di conventi e signorili dimore, e pure sui balconcini di Ballarò, Capo e Vucciria. Fiorisce solo a Palermo a causa del microclima subtropicale che vuole per emettere i suoi fiori profumatissimi.
    La prima illustrazione conosciuta di una pumelia porta la data del 1552, ma al botanico sacerdote marsigliese Charles Plumier (1646-1706) deve il suo nome anche se poi i francesi la battezzarono frangipanier dal nome del conte Maurizio Frangipane che aveva inventato un profumo simile a quello carnale del fiore della nostra pianta, al tempo di Caterina dei Medici.
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    Palermo
  • Màfia

    Il dizionario del professore Vincenzo Mortillaro è assai sbrigativo: «voce piemontese introdotta nel resto d’Italia ch’equivale a camorra». Insomma la butta larga, come si dice, attribuendone l’origine ai piemontesi, come ogni guaio dell’Isola.
    Più ardito il dizionario di Antonino Traina datato 25 giugno 1868: «neologismo per indicare azione, parole o altro di chi vuol fare il bravo…atto o detto di persona che vuol mostrare più di quel che è…nome collettivo di tutti i mafiosi». Che di neologismo si trattasse è vero giacché solo da qualche anno un prefetto aveva sentito parlare di mafia e ne relazionò mettendolo in buon italiano maffia, con due effe! Continua »

    Palermo, Sicilia
  • Lotomòbili

    Lotomòbili – proprio così: quando comparvero i primi spetazzanti automobili, maschili ancora per poco, i nostri padri ne fecero tutt’uno con l’articolo. Esattamente come succederà molto più tardi con l’Ape della Piaggio che diventò per noi siciliani la Lapa.
    Fu subito follia collettiva perché con quegli automobili si facevano pure le corse: preciso come con i cavalli, nostra antica passione.
    La Targa Florio ne suggellò l’apoteosi e i nomi di Felice Nazzaro, Louis Bablot, Ettore Graziani, Alessandro Cagno e Vincenzo Lancia divennero i beniamini di un pubblico vastissimo. Era il progresso che avanzava rombando e alzando polveroni, e tutti i siciliani stettero lì sulle strade sterrate dell’epoca ad attenderne i passaggi, con le sbandate in curva, le uscite di strada, gli incidenti…
    Fu allora che uno sconosciuto “Gasparinu”, caustico spirito indigeno, consigliò in versi:

    “Fimmineddi, masculiddi,
    neutrali, picciriddi,
    quann’è ura di la Targa
    vi cunsigghiu stari a’ larga.
    Puddicini e puddastreddi,
    cani, porci e picciriddi,
    va tinìtili ‘ntappati
    p’un finìri scafazzati…”

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    Palermo
  • Cavalli a Palermo

    L’idea nacque una domenica mattina mentre ci godevamo il sole di primavera alle spalle di Porta Felice. Luogo deputato da sempre alla partenza delle corse dei cavalli che si concludevano a Porta Nuova, 1848 metri più su. Remy Sautet, conduttore di una popolare trasmissione sui cavalli su “France 3”, mio ospite, decise di rivisitare con la telecamera Palermo e i suoi cavalli.
    Cominciamo proprio da quella piazza di fronte il “Nautico” affollata di studenti. Il Cavallo Marino del Marabitti ricorda il mito di Arione, l’arrivo dei primi cavalli in Sicilia, sbarcati sui bassi fondali per raggiungere la riva.
    – Arione? mai sentito… Uno dei tanti mostri marini di cui favoleggiarono i marinai… – Come no? il cavalluccio marino, detto ippocampo… –
    Chiara deformazione professionale di questi futuri lupi di mare. Meglio passare alla storia.
    E la storia dei nostri primi cavalli passa per le pareti della “Grotta Niscemi” all’interno della Favorita. Furono i primi cavalli palermitani. Continua »

    Ospiti
  • Un pettirosso fuori stagione

    La nostra scuderia era a Paterna, dalle parti di Terrasini, a un centinaio di metri da una falesia che ci faceva intuire il mare, sentire il frangersi delle onde, senza che potessimo vederlo. Il suo lontano azzurro sfumato, in ogni caso, era inquadrato dalla sagoma della antica torre quadrata messa a sentinella della costa cinque secoli prima. Eretta in quel posto a picco sul mare per incutere timore ai “saracini”, anche se non era servita a granché. Però era bella da vedere come scenografica quinta prima del mare. Delle onde che s’infrangevano una cinquantina di metri più in basso, giungevano le folate salate che accarezzavano per prima cosa i limoneti e dopo i vigneti che provvedevano a trasformare quella nebbiolina salmastra in fragranze e aromi che si ritrovavano poi nel bicchiere.
    I cavalli ci stavano bene in quell’angolo di paradiso terrestre. Le stalle erano ampie, ognuna con la sua bella mangiatoia in marmo grigio di Billiemi; l’abbeveratoio rettangolare, grande quanto un letto, prendeva il centro del grande cortile su cui si affacciavano i cavalli per raccontarsi i fatti loro. Quando noi non c’eravamo. Continua »

    Ospiti
  • Considerazioni su Palermo e la famiglia Cutò da cui Procopio

    A Palermo la peste del 1575 è poco ricordata perché non si fece ricorso ai santi, ma semplicemente alla scienza medica. Era Protomedico del Regno il siciliano Gian Filippo Ingrassia, laureato a Padova e insegnante all’Università di Napoli, ritenuto da tutti il fondatore della medicina legale. Fu lui, inoltre, a scoprire la scarlattina. Fu questo uomo di scienza che si prodigò con ogni mezzo per salvare vite umane, creando i lazzaretti.
    Fu in quel momento di grande paura che furono “resi liberti” molti schiavi delle grandi Famiglie siciliane per “impetrare indulgenze divine”: per farlo quei poveracci dovevano essere battezzati giacché la Chiesa accettava la riduzione in schiavitù soltanto dei “non cristiani”.
    Nasceva il problema del cognome che generosamente fu offerto ai liberti: ecco, dunque, migliaia di poveracci con cognomi altisonanti come Alliata, Lanza, Butera, Belmonte, Altavilla, Aragona, Cutò… Questi ultimi antenati del principe Giuseppe Tomasi di Lampedusa, l’autore de “Il Gattopardo”. Continua »

    Ospiti
  • Un siciliano a Parigi

    Se vi capitasse di passare da Parigi non mancate un salto a rue de l’Ancienne Comédie: al civico 13 vi attende “le plus ancien café du monde”. Otto finestroni al primo piano che sporgono su una bella balconata in ferro, con tanti vasi fioriti, per incorniciare “Le Procope”. Un monumento francese, non soltanto parigino, ricoperto dall’amore e dal rispetto che i francesi accordano solitamente a ciò che amano. Con la consumazione avrete diritto alla cartolina dove si legge che nel 1686 Francesco Procopio dei Coltelli, gentiluomo di Palermo, installò in rue des Fossés Saint Germain (antico nome dell’attuale indirizzo) il suo primo caffè. Un piccolo marmo rotondo vi ricorderà ancora che qui Procopio portò per la prima volta i sorbetti in Francia. Continua »

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  • Il Beato Matteo Gallo da Girgenti

    A Palermo gli hanno intestato una via al Beato Matteo da Girgenti: traversa di via Angelotti, dalle parti della Guadagna, Cap 90124. Meriterebbe di più?
    Matteo Gallo giunse in Sicilia nel 1426 per volere di San Bernardino da Siena. Lo scopo era quello di riformare i monasteri dell’Ordine francescano. Per questo motivo andò in giro per tutta l’Isola non mancando di fare prodigi. Uno di questi portenti avvenne davanti la chiesa del Carmine di Girgenti. Come si chiamava Agrigento all’epoca.
    Il nostro Matteo invitava la gente all’osservanza del precetto di santificare le feste. Era domenica e si trovarono a passare proprio davanti la chiesa “alcune mule cariche d’orgio”. Che sarebbe l’orzo che, a quel tempo, aveva il posto occupato oggi dall’avena nell’alimentazione dei cavalli. Il barbuto Matteo così tuonò davanti al numeroso pubblico: “Vengasi ai fatti: queste bestie che vedete non mangeranno mai di questo orgio perché han fatto trasporto in giorno di festa del Signore nostro. Se ne discarichi e si ponga loro davanti. E così fu fatto e le mule non ne mangiarono e si posero a fuggire come incalzate dai lupi”. Continua »

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  • Mondello, una piazza per tutti

    Ai miei ospiti mostro sempre Mondello dall’alto del Monte Pellegrino. Rimangono affascinati dalle villette immerse nel verde in cui occhieggiano decine di piscine. E pure da quel mare di cui si scorge il fondo e su cui galleggia lo “Stabilimento”. Raffinato tocco Liberty che dà il senso esatto dell’ultima elegante propaggine di Palermo.
    Le cose cambiano quando si scende giù. Che si tratti proprio di un pezzo di Palermo e non della California o della Costa Azzurra, lo si capisce dal traffico attorno a Valdesi e dal fatto che noi parliamo di “gabine” e non di capanne balneari come si usa in tutto il resto d’Italia. Ma fin qui niente di male.
    I guai vengono dopo. Quando la strada sfocia nella piazza di Mondello.
    Generalmente si viene avvolti da un profumo mediorientale di frittura (calamari e gamberi o panelle…), di aglio soffritto nell’olio (spaghetti alle vongole?) o da quello più intenso e dolciastro dello sfincione. Dipende dagli orari.
    Il mare si potrà vederlo solo dopo. O quasi.
    Infatti stanno tornando le baracche. Zitto zitto, come si usa dalle nostre parti. Continua »

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  • Quando i morti andavano in carrozza

    Nel 1928 ci volevano duemila lire per un funerale decoroso: un ultimo viaggio in carrozza verso l’eterna dimora. Toccando ferro, diamo un’occhiata alle tariffe d’epoca che prevedevano:
    “Lit. 1.115 per carro semplice a due cavalli, di II classe.
    Lit. 2.015 per carro di lusso a quattro cavalli, di I classe.
    Lit. 2.160 per carro tipo Bombardone a sei cavalli.”
    Una vera fortuna essendo quella la bella epoca in cui si cantava “…se potessi avere mille lire al mese…”
    A Palermo l’appalto per i “trasporti funebri con carrozze a cavalli” venne affidato, sul finire dell’Ottocento, a Gioacchino Provenzale a cui, nel 1923, subentrò il figlio Giovanni.
    Le carrozze impiegate a quell’epoca avevano strutture a colonnine tornite e capitelli che le facevano rassomigliare a templi greci: il classicismo si faceva sentire anche lì. Il regolamento comunale prevedeva che l’appaltante tenesse in scuderia un minimo di ventiquattro cavalli di cui “sei bianchi per i trasporti su carro dipinto di bianco ad uso di minori e vergini”. Gli altri cavalli dovevano essere di mantello morello o baio molto oscuro. I cavalli timonieri di altezza al garrese “non inferiore a metro uno e settanta”. Continua »

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