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venerdì 29 mar
  • Piani di fuga

    Si è appena inaugurata la mostra “Piani di fuga”, personale di Antonio Micciché al Loggiato San Bartolomeo, mostra dal titolo evocativo, specialmente per chi vive nella nostra città…(non parliamo per chi segue vicende pubbliche e/o politiche).
    Molto più poeticamente rispetto alle mie riflessioni però le fughe di cui parla la mostra, sono fughe prospettiche, visionarie, paesaggistiche, fughe dell’occhio che corre più veloce dei piedi.

    Antonio è un pittore di paesaggi, pure quando faceva le istallazioni (Sogni d’oro, 1998, Il sogno degli altri, 2002 o Fuochi fatui, 1999) dipingeva paesaggi. Nel primo caso e nel secondo caso erano paesaggi onirici, letti vuoti e immacolati, a volte dipinti, sparpagliati in una stanza che evocavano mancanza di sogni o mancanza di stato di veglia…ma sicuramente la disposizione dei letti, la loro immacolata luce di cotone stropicciato, le pieghe di un sogno di altri dipingevano un racconto, un orizzonte narrativo proprio di chi è intrinsecamente e assolutamente legato al paesaggio.

    La mostra in questione è un’antologica, raccoglie lavori che vanno dai primi anni Novanta ad oggi ed è curioso in questi casi, osservare come muta la concezione di uno stesso oggetto nel corso del tempo da parte dell’artista. I primi, del 1990, sono campiture di colori forti, macchie dal registro espressivo, capaci di colpire per la loro forza e semplicità, tele appena divise da linee trasversali che segnano un corso d’acqua, un campo, l’orizzonte. Il paesaggio cioè ridotto alla sua essenzialità, ai suoi fattori primi e principali: colore, area, linee, materia. L’altro periodo (1993-97) è un po’ l’astrazione del primo, i colori si fanno più scuri, meno violenti, come se Antonio avesse introiettato le cose già viste, già dipinte, le impressioni già provate e le avesse filtrate, mediate. Questo può essere in parte testimoniato da un arricchimento del modo di dipingere, alle campiture e stesure materiche del fondo si aggiungono colature, segni del passaggio della mano dell’artista, colore che scola, che si raggruma, che prende personalità.

    Punto di svolta è Ab continuum infinitum (1994) in cui il pittore si misura con la negazione della pittura di paesaggio. Dichiarando l’infinito dichiara l’impossibilità di poterlo dipingere, naturalmente lo fa attraverso un processo di studi e di bozzetti, per cui la negazione lo porta ad un’acquisizione. Sembra un processo logico, quasi filosofico, che visto nel percorso lavorativo di Antonio ha un che di presa di coscienza, di consapevolezza con l’oggetto trattato. L’artista, come un musicista si serve dell’elemento base – la ritmica – per la composizione (il processo è ben spiegato da Emilia Valenza nel suo scritto in catalogo) dallo stesso processo, dal suo concetto è nata una composizione musicale di Domenico Sciajno. Doppio registro creativo che consente un interessante parallelismo pittura-musica e un’ipotesi: la ritmica del paesaggio – il suo farsi essenza – investe il pittore che può, avendone compreso l’essenzialità, avendolo decostruito, adesso ricostruirlo.
    Ed effettivamente così è, lo ricostruisce pian piano anche con l’uso di mezzi quali catrami e bianchi, fino a dedicarsi alle istallazioni di cui sopra (pur sempre trattate con pittura), poi con resine e colle sulla materia. E dal 1997 anche sulle tele compare la materia: pezzi di cartone, particolari di paesaggio, pezzi di plastica, con resine e colle quasi diventano macchie, particolari di un di più negato, fuoricampo.

    L’ultimo pezzo della mostra “Waterfront” racconta di una città di mare, vista dal mare. Navi, acque e porti spuntano fuori dai disegni (realizzati con penna biro), dalle tele, anche qui l’artista usa le colle e i catrami che però inventano orizzonti nuovi, reali ma trasposti in termini tali da diventare sogni quasi, paesaggi bianchi e neri che sanno di documentario d’epoca, di vecchie foto, di immagini raccontate, posti che esistono per sentito dire. E invece sono Monte Pellegrino, palazzo Butera, il Foro italico, l’Albaria e le gru del nostro porto.
    Potrebbe essere un buon modo per far sì che i visitatori spostino la propria attenzione dai quadri alle finestre e guardando fuori si chiedano se veramente esiste questo benedetto waterfront o se è destinato a rimanere solo in mostra.

    Palermo
  • 5 commenti a “Piani di fuga”

    1. Il vero ‘Piano di fuga’ è quello che avrei voluto mettere in atto per evacuare al più presto le sale espositive del piano terra e del primo piano. Avrei preferito una sezione storico-documentaristica della vita dell’artista con foto di repertorio, documenti, le pagelle, le foto del suo compleanno e quant’altro: almeno sarebbe stato divertente. Poi al secondo e terzo piano la mostra comincia ad avere la sua forma (di mostra appunto) con dei percorsi e dei lavori veri. Belli!
      Nel terzo piano mi sono chiesto chi è antonio miccichè…l’autore di certosini ricamini fatti con la biro o la mano spessa di bianco che delinea con grande bravura i profili della città…allora mi son detto: visto che c’era pure roberto alajmo a scrivere…perchè non intitolare la mostra “Antonio Miccichè è come una cipolla”? guardandolo di spalle mi è sembrato un titolo più calzante!

    2. Reeveee, mi ha fatto morire dalle risate!!!
      Diciamo che in alcuni punti mi trovi assolutamente d’accordo. Io ho iniziato a visitare la mostra subito dal 3°piano (ovviamente il piano dei stuzzichini, vino, etc. ;-D ) e poi mi sono calata da piano a piano sempre più in accelerazione perche i quadri mi piacevano sempre meno.
      In effetti il 3° piano era veramente bello, il resto meno.

    3. Piacere omonima! Che rarità! E per di più nello stesso spazio virtuale 🙂

    4. E un bacio a Crì.. impeccabile, come sempre:)

    5. grazie svevalagna! un bacio pure a te!

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