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giovedì 25 apr
  • Quaderno di Palermo 22

    In questo pianeta che ancora regge e ci sopporta e per sfortuna nostra ancora non insorge completamente, qui non c’è città dove non ci sia come una spaccatura tra il centro e la periferia, non importa se se tratti del primo, secondo o terzo mondo. E la mia prima intenzione era di dire che Palermo non è diversa da tutte le altre città che più o meno uno può conoscere perché quando il forestiero arriva, sia dall’aeroporto che in treno o in pullman, mentre lui attraversa tutti i quartieri per giungere alla sua destinazione, ha l’impressione che anche in questo Palermo come tutto il mondo è paese. Ma cosa s’intende veramente quando si parla del centro e della periferia di una città?
    Quando si fa riferimento al centro urbano, uno pensa alla memoria ch’è racchiusa in ogni palazzo o monumento o strada ancora vissuti, ancora perché il loro fermento di vita secolare non è mai stato interrotto da nessun cambiamento diciamo speculativo. Un’altro modo di considerare il centro cittadino sarebbe paragonarlo a un palinsesto le cui pietre stratificate e sovrapposte fungono da parole sempre dette o stese sulle superfici di queste pietre tante volte spostate e usate dal tempo e dalla mano dell’uomo. Sì, proprio come se si leggesse una pagina o la si ascoltasse perché recitata da qualcuno e i cui echi rimandassero a tutte le voci che fino a quel preciso momento sono state dette, urlate o pure messe sotto silenzio. In fondo in fondo si tratta di uno specchiarsi nella propria storia, di un incontro inconsapevole con quelle corrispondenze millenarie che fanno capo a noi stessi, voglio dire all’intero essere umano. In altre parole, oserei dire che si può addirittura vedere o sentire il centro di una città come un labirinto cognitivo, come un luogo di permanenza dove tutto viene intrecciato con il filo della memoria attraverso il punto nodale delle nostre impronte, le quali certamente sono allo stesso tempo quelle di tutte le persone che furono lì prima di noi.
    Tutto il contrario certo della periferia, nonostante si tratti anch’essa di uno spazio intricato. La sua etimologia già ci dice tutto. Per quel suo essere intorno a qualcosa, “circonferenza” che avvolge un punto fisso, zona esterna che circonda il centro di una qualsiasi città, mai lo potrà raggiungere inoltrandosi nel suo fortificato spazio. Sempre ne sarà al di fuori, come una postilla al margine di una pagina: anche se esclusa dal testo principale, non può farne a meno perché altrimenti sarebbe priva di senso o non si capirebbe del tutto. Ma, così come è stato detto per il centro, anche la periferia è un labirinto, le cui vie sboccano però nel vuoto, luogo di frontiera e di nessuno, spazio permanente e di passaggio (gli appigli sono sempre altrove, aldilà appunto della linea di confine, raffigurata tante volte dal televisore che figura ad ogni finestra o balcone o addirittura nei portoni). E quando uno pensa alla periferia, l’una vale l’altra, perché tutte le periferie del mondo si confondono. Non c’è la minima traccia di memoria nella loro disposizione, se non forse nei frammenti dei mattoni ancora fatti col fango, o nei brandelli di tanti aneliti sconquassati dalla loro realtà apparentemente accidentale. E iniziavo il testo scrivendo che Palermo non era differente da altre città rispetto a tutto ciò che poi è stato detto.

    (segue)

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