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martedì 10 dic
  • “La” conoscenza e “le” conoscenze, un errore che può costar caro

    Se dovessi indicare, tra le tante, una specificità (secondo me negativa) dei siciliani, non avrei alcun dubbio su quella che metterei al primo posto: il fare riferimento, dovendo individuare (qualunque sia l’ambito, qualunque sia l’attività) la persona giusta, non al merito, non alle competenze, non al valore, non a qualcosa di oggettivo, misurabile, riscontrabile, ma alle “conoscenze”, alle “amicizie”, vale a dire a quanto di più soggettivo ci sia.
    Sono dell’idea (confortata dall’esperienza) che quella che a molti sembra essere (chissà poi perché) una componente essenziale dell’essere siciliano, della cosiddetta sicilitudine, sia, proprio quella, all’origine dello stato nel quale si è ridotta la terra dove un tempo pascolavano le vacche sacre al Sole.
    Non sto parlando dell’uso improprio, superficiale, della parola “amico”, di uno, cioè, dei sempre più frequenti segni di banalizzazione delle parole, né della miserabile strumentalizzazione che molti fanno, al fine di trarre un vantaggio rispetto ad altri, di ottenere un privilegio, di quello che è uno dei legami più importanti della vita.
    Sto parlando dell’errore che si commette nel ritenere che una persona, in quanto “amico”, sia per questo all’altezza di ricoprire efficacemente un ruolo, una posizione, che sia in grado di fare bene quello che c’è da fare, nel pensare che l’essere “amico” legittimi una scelta, nel credere che sia possibile trasformare, come per magia, un incapace in un serio, abile, professionista.
    Se un individuo, nella realtà, è un incapace, se questa è la verità, non c’è amicizia che tenga, rimane un incapace.
    A questo proposito, sarebbe bene tenere sempre a mente quel che Don Chisciotte ricorda a Sancho Panza quando, citandogli la famosa sentenza latina «amicus Plato, sed magis amica veritas», lo esorta a non dimenticare che la verità vale più dell’amicizia, che la prima, nella scala gerarchica dei valori, prevale sulla seconda.
    E invece, a furia di fare ricorso a questa “procedura” (tanto nella sfera pubblica quanto in quella privata) nella scelta, nella selezione, delle persone, a furia di affidarsi a gente incapace di fare bene, a furia di non tener conto della competenza, si è creato un sistema pericolosamente perverso, un sistema che, per il fatto di autoalimentarsi, aumenta sempre di più il proprio potere.
    Quella che si è così venuta a creare è una vera deformazione permanente (ormai la piega è presa, per usare un’espressione ben nota ai siciliani, soprattutto ai palermitani).
    Stando così le cose, non vedo come se ne possa uscire, come si possa rimediare ai tanti guasti prodotti da questa mentalità, così profondamente radicata in tutti gli strati della società siciliana.
    E tra questi guasti, quello che considero sicuramente il più grave, il più deleterio, è quello di essersi così abituati a questo “metodo” a tal punto da non rendersi conto dell’esistenza del problema (anche perché questo “metodo” non viene considerato un problema).
    E se non si ha nemmeno consapevolezza dell’esistenza di un problema, come si può pensare che lo si possa, non dico risolvere, ma almeno affrontare?
    Non rendersi conto dell’enorme differenza che c’è tra far parte del giro delle proprie “conoscenze” ed essere una persona che sa fare bene il proprio mestiere, qualunque esso sia, è un errore che in certi casi può rivelarsi fatale.
    Come nei casi in cui il cosiddetto “amico” al quale ci si rivolge non è capace di diagnosticare una grave malattia, non sa “leggere” il risultato di un esame, non sa eseguire correttamente un intervento chirurgico.
    Quello che di un chirurgo dovrebbe interessare sapere, prima di affidarsi alle sue mani per un delicato intervento, non è di chi è “amico”, ma quanti interventi di quel tipo ha eseguito, con quale percentuale di successi e quando ha effettuato l’ultimo.
    E il primo al quale questi dati dovrebbero interessare è il paziente in causa, indipendentemente dal fatto che quel chirurgo sia o no un “amico”, suo o di suoi “amici”.
    Se è grave, come spesso accade ai siciliani, surrogare l’azione con le parole oppure scambiare l’apparenza con la realtà, scambiare “la” conoscenza con “le” conoscenze può, in certi casi, avere conseguenze molto serie.

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  • 3 commenti a ““La” conoscenza e “le” conoscenze, un errore che può costar caro”

    1. Bell’articolo che dipinge la realta’ non solo siciliana ma anche quella nazionale vedi persone al vertice di settori politici. Che amarezza!!!

    2. E’ il cane che si morde la coda. Se non conosci nessuno, non avrai riconosciuto un tuo diritto o lo avrai riconosciuto molto in ritardo. Se conosci qualcuno, utilizzi la tua conoscenza per aggirare gli ostacoli e beneficiare meglio di altri di sevizi che ti dovrebbero essere dovuti per diritto.
      C’è gente che svolge come lavoro quello di andare a cercare gli agganci giusti e bussare nelle porte giuste, procacciando incarichi per la propria azienda o attività. Molte volte andare a parlare ad un funzionario piuttosto che ad un altro, risolve molti problemi e fa risparmiare o guadagnare soldi. come se ne esce? Non c’è ad oggi una soluzione, ma sono sicuro che se qualcuno la trova e la fa applicare, ci vorranno almeno cinquant’anni affinchè il sistema si resetti e permetta a tutti di usufruire dei servizi allo stesso modo e al pari di altri.
      Forse la crisi che stiamo vivendo, compresa quella politica, farà prendere coscienza a molte persone del fatto che oramai l’epoca dei “favori” sviluppatasi dal dopoguerra ad oggi è finita, e che nessun politico è in grado più di ricattarti con la promessa del “posto”. Lsu, P.i.p, e precari della Pubblica Amministrazione a parte.

    3. Sarà anche vero, ma mica è una “specificità” dei siciliani, caro Torre!

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