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giovedì 28 mar
  • Guardando un film con i detenuti del Pagliarelli

    Entrare in un carcere da ospite, anche se per poche ore, ti può insegnare tanto. Più di quello che s’immagina.

    A me è accaduto ieri al Pagliarelli, invitato da Giuseppe Li Causi, esperto e fan di Franco Franchi e Ciccio Ingrassia, dove ho partecipato come relatore alla proiezione del film Per un pugno nell’occhio, visto insieme a un gruppo di detenuti, nell’ambito della rassegna cinematografica Una risata fra 4 mura dedicata ai due famosi attori palermitani (che si concluderà martedì prossimo), organizzata con Lino Zinna, il sosia ufficiale di Domenico Modugno.

    Varcare la soglia del carcere, innanzitutto, significa incrociare gli sguardi dei detenuti, soprattutto giovani, di fronte ai quali il pensiero è stato sempre lo stesso: “peccato“.

    Sì, perché ognuno di loro naturalmente si trova al Pagliarelli per aver commesso qualcosa, più o meno grave, buttando via del tempo di vita che avrebbe potuto utilizzare in maniera diversa.

    Magari accanto ai propri figli, quelli stessi che vanno a trovare i papà quando possibile, sfuggendo al controllo delle madri nel tratto che li separa dalla stanza dei colloqui, felici di correre verso di loro; e alle proprie mogli, quelle stesse che portano con sé sacchetti con indumenti e roba da mangiare e che salutano i propri mariti da lontano, pur non vedendoli ma riconoscendo la cella in cui si trovano e da dove sventola un fazzoletto bianco come risposta.

    Sì, guardare le loro famiglie mi ha emozionato e al contempo mi ha sconquassato il cuore, condividendo con loro un sorriso dolce e amaro.

    Come vi dicevo, quindi, ho visto con un gruppo di detenuti il film comico, la parodia di Per un pugno di dollari, il famoso film di Sergio Leone.

    Uno di loro, tra una parola e l’altra, ha confessato di stare in prigione da otto anni e ci sarebbe rimasto fino al 2034. Non mi sono chiesto il motivo per questa pena così aspra perché lì dentro perde d’interesse, in quanto deve bastare il fatto che quell’uomo sta pagando il conto alla giustizia; ma mi sono domandato quale possa essere il concetto di speranza di chi sa che sarà libero fra quasi vent’anni. Io, forse, al posto suo, l’avrei persa sin dal primo momento. Invece lui crede nel domani e si augura con la buona condotta che possa avere uno sconto dallo Stato, prima o poi.

    Insieme a quest’uomo c’era altra gente, di diversa età: giovani e meno giovani, con una tuta addosso (uno di loro ne indossava una con lo stemma del Catania, ragione per cui non poteva non scappare una battuta sull’annata difficile della squadra etnea in serie B, in contrapposizione con quella fortunata del Palermo: un momento di “sfottò” per ridere un po’).

    Alla fine del film, seduto sopra un banco (sì, avete letto bene), ho raccontato a loro che sono nato al Capo, a pochi passi da dove crebbe Franco Franchi; dell’infanzia infelice dell’attore palermitano e del suo dare del tu alla fame; dei suoi primi passi di attore del popolo nella piazzetta che oggi ha il suo nome (e quello di Ciccio); del suo dispiacere verso una critica che non ha mai amato i suoi film (ma sottolineando che è il popolo a decretare il successo di chicchessia e non gli intellettuali); dei suoi guai giudiziari che lo hanno fatto passare per mostro dopo aver trascorso la vita a fare ridere la gente, soprattutto i bambini; dell’ingratitudine della propria città e del ritardo colpevole nell’elogiarlo.

    Insomma, ho parlato dell’attore – per quel poco che so di lui – evidenziando volutamente il principio del riscatto sociale che, tra le mura di un carcere, ha un significato ancora più forte.

    Magari, leggendo queste righe, starete pensando che quella gente si merita di trascorrere le proprie giornate rinchiuse in una cella.

    Non dico che non debba essere così: lo Stato deve punire chi infrange la legge e soprattutto chi fa del male agli altri.

    Al contempo, però, giornate come quella che ho trascorso io dimostrano che il carcere non deve mai perdere di vista la sua seconda funzione: la risocializzazione.

    Perché ogni uomo, dopo aver scontato la pena, ha diritto a una seconda possibilità e la società deve fornirgli gli strumenti per poterla sfruttare al meglio: non solo attraverso l’istruzione o le attività nei vari laboratori presenti all’interno della prigione (al Pagliarelli ho persino visto che c’è una stanza dedicata all’apicoltura) ma anche attraverso gli appuntamenti culturali e ludici, come quello messo su da Li Causi e Zinna, con cui restituire a quella gente un altro diritto fondamentale: il sorriso.

    Palermo
  • 3 commenti a “Guardando un film con i detenuti del Pagliarelli”

    1. Complimenti Walter Giannò!Un’articolo degno di un vero giornalista professionale…

    2. Post come questi andrebbero letti a scuola quando si parla di carcere e detenuti.

    3. Grazie Walter Giannò per questo prezioso articolo. Il Giornalista deve vivere con intensità quei momenti per poter sviluppare un articolo, ed è questo che il pubblico vuole leggere, l’esperienza del giornalista che commenta minuziosamente ciò che ha visto, le testimonianze, le emozioni che egli stesso prova, il rapporto con la gente. Bravo Walter.

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