Il festino di Santa Rosalia
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    Racconti ucronici, cronache di una Palermo possibile: viaggi in carrozza

    Ogni viaggio, se pur lungo, inizia con un primo, piccolo passo ed ogni spostamento dal proprio luogo di origine ad una zona sconosciuta provoca una variazione sia interiore che esteriore in ogni essere umano.
    Nel Regno Infinito delle Realtà Parallele un viaggio di un essere animato provoca un mutamento di tutte le condizioni di equilibrio all’interno della sfera dell’Esistenza. Ciò porta ad una dilatazione (o una contrazione) della dimensione spazio-temporale nella quale egli vive, con consequenziali sconfinamenti o dissolvimenti nel Regno delle Realtà Terrene.
    Questi mutamenti, se pur incredibili, accadono più spesso di quanto non si riesca ad immaginare, ma gli esseri viventi ne hanno coscienza solo raramente.
    È di uno di questi apparenti errori che stiamo per raccontare la storia.

    Carrozza

    A proposito di viaggi, e soprattutto di quelli in carrozza, nel 1782 a Palermo il Marchese di Villabianca scriveva: «Ai dì nostri il mantenimento delle carrozze è un lusso de’ nobili, credendo il volgo doversi reputar soltanto cavaliere colui che ha carrozza e non va a piedi come le persone minute». Ecco dunque la vettura diventava segno manifesto di ricchezza. «Cangiano i tempi…» ma non l’uomo.

    Fino alla metà del 1600 solo le dame nobili andavano in carrozza, mentre gli uomini usavano preferibilmente il cavallo. In quel periodo infatti le carrozze a Palermo erano soltanto 72. Il loro uso tuttavia si incrementò moltissimo nel secolo successivo tanto che nel 1782 ne furono contate addirittura 784!

    Esse erano composte da una ampia cassa, scoperta o coperta, che alloggiava i passeggeri (successivamente alleggerita ed illuminata all’interno coll’inserimento di parti in vetro) le ruote, il timone, le stanghe per attaccarvi i cavalli e la cassetta per il cocchiere. Col trascorrere del tempo furono sempre più elaborate e decorate per deliziare il viaggiatore nonostante le innumerevoli soste, durante il percorso, per incidenti e rotture delle parti che le componevano. Palermo ne fu per lungo tempo luogo di produzione e di abile decorazione. Le prime ad essere costruite erano pesantissime, ma via via si trovò il modo di renderle più funzionali e leggere. Ogni nobile famiglia si faceva vanto di avere una propria carrozza padronale (o più di una) che veniva usata con frequenza, per ogni viaggio o trasporto di persone, con conseguenti ingorghi stradali, litigi, ricorsi alle autorità. Non rara era la sosta in mezzo agli stradoni o alle carreggiate cittadine per scambiare un saluto, una chiacchiera, un invito o un pettegolezzo con amici o parenti incontrati per caso. Questo causava il blocco del traffico e, in alcuni periodi, costrinse le autorità ad intervenire con ordinanze che vietavano le soste, in strade e crocevia di maggior attività, per riportare le abitudini cittadine a miglior consiglio.

    Le nobili dame ritenevano ogni attività fisica un requisito proprio del volgo e se ne astenevano il più possibile. Allo scopo le dame erano circondate da cavalier serventi e cicisbei, ed alcune addirittura sentivano la necessità di averne uno per ciascun lato, sia a destra che a sinistra, temendo di non potersi sostenere sulle proprie gambe, durante le passeggiate.

    Le sere d’estate uomini e donne della nobile Palermo trovavano refrigerio recandosi allo stradone della Marina, una passeggiata oltre le mura dove si allestivano concerti musicali per allietare la nobiltà desiderosa di svaghi. I servi accompagnavano in carrozza i loro padroni oltre Porta Felice e lì li ritrovavano alla fine della serata, ma mai prima delle ore 2 della notte. Del resto i concerti iniziavano intorno alla mezzanotte.

    Superata la Porta Felice, nel percorso della passeggiata della Marina era fatto divieto di accendere qualsivoglia lume o lanterna ed i nobili a passeggio, donne e uomini, spesso in carrozza, si incontravano lì, col favore dell’oscurità.

    Tra costoro erano comprese anche le giovani donne nubili (in controtendenza con il resto d’Italia) alle quali le madri concedevano, se non incoraggiavano, la possibilità di far pratica delle gioie mondane anche prima del matrimonio. Ciò procurò scandalo, ma anche gioia, in numerosi viaggiatori internazionali dell’epoca.

    Gli altri, cioè tutti coloro che non erano di nobile casato, usavano frequentemente per i loro spostamenti camminare a piedi, cosa non del tutto semplice viste le pessime condizioni delle strade.

    «Dixi. Però ‘na grazia v’addimmannu:
 com’ ‘un aju carrozza e vaju a pedi,
 vurria li strati netti tuttu l’annu. 
O fangu, o pruvulazzu chi arrisedi sfascia li scarpi, allorda li quasetti,
 e in procintu di càdiri mi metti» (Onofrio Jerico).

    La divisione in caste sociali era molto rigida ma c’erano diversi giovani che avevano l’ardire di voler salire di qualche gradino nella scala della società.
Al passeggio della Marina a volte alcuni sfrontati giovanotti si intrufolavano tra le carrozze delle dame e delle signorine, in cerca di un brivido avventuroso. L’orgoglio di essersi intrattenuti con una giovine di nobil casato era un impulso fortissimo per chi reputava di aver sufficiente coraggio e impudenza.
    Tra essi vi era il Conte di Montizòn. La sera, insieme ad altri giovani, si aggirava per la Marina indossando abiti sottratti ai guardaroba nobiliari, presentandosi alle belle signore come un forestiero in viaggio a Palermo proveniente dalla Spagna, sua terra d’origine.
Il Conte di Montizòn aveva attenzioni un po’ per tutte le dame ma prediligeva la figlia secondogenita del Duca Colonna di Cesarò, Cecilia, una deliziosa quindicenne timida e spontanea, ancora davvero troppo immatura per iniziare le sue esperienze amorose. Era una giovinetta che ancora amava i giochi infantili e li mischiava amabilmente con le civetterie della dame più in età, dalle quali apprendeva e traeva ispirazione. Durante il giorno studiava con l’istitutore e con il maestro di musica, ma nelle sere d’estate non vedeva l’ora di uscire dalle mura domestiche. L’istintiva curiosità ed il subbuglio ormonale la spingevano irrefrenabilmente a valicare i confini della città, cercando ogni occasione buona per incontrarsi e divertirsi insieme ad altre fanciulle e dame. Quasi ogni sera ella era quindi allo stradone della Marina, o per un motivo o per un altro.

    Una sera fu espressamente invitata ad una passeggiata dal Conte di Montizòn dopo innumerevoli sguardi d’intesa lanciati nella sua direzione e, con il cuore in gola che batteva all’impazzata, accettò. Sentiva che le gambe si sarebbero piegate e l’avrebbero lasciata improvvisamente senza forze ad un certo punto del percorso. I due si incontrarono ai bordi del giardino della Villa Giulia, si rivolsero un emozionatissimo saluto e poi lei chiese, con la vocetta infantile che, malgrado l’intraprendenza, ancora aveva: “ma tu, dove mi porti”? Lui rispose con un cenno, le porse la mano, chinando lo sguardo in terra. Percorsero quindi un piccolo tratto del giardino. Poi Cecilia intravide un gruppo di passeggianti molto più adulti di lei e d’improvviso tornò indietro verso la sua carrozza, imbarazzata, non volendo essere scoperta insieme a lui, ma consapevole del suo percorso appena intrapreso verso una maggiore maturità.
Dopo questa piccola esperienza, l’emozione lasciò parzialmente il posto ad un sentimento misto di delusione e di consapevolezza. In quei pochi istanti aveva percepito e saputo qualcosa del suo Conte, qualcosa che prima ignorava. Ma anche qualcosa di sé stessa.

    Il Conte di Montizòn era in realtà Bernardo Mustazzola, un ragazzotto di estrazione popolare dal fisico asciutto ma muscoloso, i lineamenti mediterranei, grandi occhi scuri, labbra carnose con una leggera peluria che gli copriva i baffi, capelli morbidi portati leggermente lunghi, ed era sufficientemente ambizioso e volitivo. Era figlio di un pasticciere che era spesso chiamato a realizzare i suoi manicaretti presso le case nobiliari ma che viveva nelle campagne intorno alla città. Non era molto bravo nell’eloquio e, se avesse conversato anche per poche battute, probabilmente avrebbe facilmente rivelato le sue origini popolari. Si adoperava quindi ad attirare l’attenzione delle giovini fanciulle con uno sguardo penetrante che parlava un linguaggio ricco di sensualità ed ardore. Le fanciulle inesperte interpretavano senza alcuno sforzo le sue insistenti occhiate come prove di un amore illimitato ed irrecuperabilmente perduto. Cadevano così in deliquio senza alcuna rete che ne limitasse la capitolazione.
    Nelle sere che seguirono continuarono tra i due le movenze e le pause, come in un ballo rituale. Persisteva in entrambi un leggero timore nell’incontrarsi ancora. Da parte di Bernardo c’era la preoccupazione di svelare involontariamente la sua educazione popolare e la sua scarsa preparazione culturale. Cecilia invece inconsciamente temeva di infrangere il suo sogno perfetto. Nel sogno era infatti libera di immaginare il suo Conte come il più impeccabile dei cavalieri possibili. Il corteggiamento rallentò così il suo incedere ma non perse il suo ardore.
    Il 14 luglio si preparava la festa della Patrona di Palermo, Santa Rosalia, e tutta la città era in gran subbuglio. Erano previsti molti intrattenimenti in piazze e strade ed era tutto un brulicare di messaggi recapitati dalla servitù per fissare gli appuntamenti amorosi della sera. Cecilia non sapeva in alcun modo dove e come avrebbe potuto incontrare il suo innamorato, ma era oltremodo fiduciosa che lui avrebbe trovato una soluzione per incontrarla. Si vestì e si imbellettò con abiti ed ornamenti della festa e, nella carrozza di famiglia, fu accompagnata alla Marina in compagnia di sua cugina Giulia. Insieme iniziarono una passeggiata nella penombra. Non era facile distinguere chi si incontrava, a meno di non conoscerlo bene nelle fattezze o nella voce. Giulia quella sera volle spingersi un po’ oltre il limite della consueta passeggiata, in una zona in cui la strada era piuttosto difficoltosa da percorrere. C’erano talmente tante persone che era piacevole allontanarsi a tratti dalla folla. Si trovarono ad un certo punto all’angolo con una stradina stretta che si infilava, attraverso un sottopassaggio, nelle mura e lì videro un gruppo di uomini.

    Tra essi era sicuramente Bernardo Mustazzola. Cecilia lo riconobbe subito, dall’aspetto e dalla voce, anche se lui era in ombra. Gli altri erano palesemente popolani. Lui stava parlando al gruppo come parla un capo, o almeno uno che ritiene di esserlo, con una spavalderia e sicumera che Cecilia non aveva mai osservato in lui. Avvicinandosi ancora un po’ al gruppo Cecilia, non vista, sentì chiaramente una frase: “a lei ci penso io, so cosa faccio”. Capì subito di chi stavano parlando ma le era difficile crederlo. Il Conte di Montizòn stava parlando proprio di lei, con un gruppo di amici di estrazione popolana, e con quel tono!?
Il suo cuore si fermò. Sentì come uno schiaffo in pieno viso e percepì il rumore del crollo del suo sogno. Un rumore come di vetri rotti. Pochi secondi dopo, però, in lei montò la rabbia e sentì la forza del suo orgoglio.

    Con il cervello ed il cuore in fiamme corse, abbandonando Giulia per strada, alla sua carrozza. Ne aprì la porticina e si rifugiò tra i tendaggi e i cuscini cercando di calmare il tumulto di sentimenti che l’avevano pervasa. Le girava la testa! Era indignata, arrabbiata con sé stessa per aver creduto che il Conte fosse un uomo sincero, sconvolta per averlo visto parlare di lei come fosse una pedina ed in confidenza con degli uomini così rudi… 
Tantissime sensazioni la trascinavano e la confondevano. Era sopraffatta. Nascose la testa tra i cuscini e cercò di portare la calma dentro il suo intimo tornado. Rimase così per alcuni minuti.
    L’aria fresca sulla pelle la sorprese. Sentiva la mussola dei vestiti svolazzare sulle sue braccia. Piano alzò la testa e si guardò intorno, incredula.

    La carrozza stava volando!…e lei era seduta su una seggiola strana, di colore scuro, senza cuscini ma sorprendentemente comoda, con una forma sagomata, mai vista prima. Erano sparite le pareti della sua carrozza, non c’era la porta, non c’erano i cavalli né il cocchiere. Sotto la nuova carrozza c’erano delle ruote orizzontali che giravano vorticosamente e facevano un rumore continuo. E sotto di essa il vuoto! Stava sorvolando una città sconosciuta che Cecilia poteva riconoscere a tratti come Palermo, ma solo in alcuni punti. Moltissime parti erano nuove, irriconoscibili, mai viste e probabilmente mai esistite. La carrozza la stava conducendo in un itinerario che non era lei a decidere. Dopo un giro panoramico della città, fece una sosta all’esterno di un altissimo edificio, da cui poteva osservare una larga finestra trasparente. Da questa posizione lei vide una donna, con abiti semplici ma eleganti, abbigliata in omaggio ad una moda che le era sconosciuta, mentre stava conducendo una riunione in cui tutti ascoltavano e si rivolgevano a lei con rispetto e reverenza. Sentì che quella donna era lei anche se l’avvenimento era inspiegabile. La carrozza rimase ferma davanti alla finestra per un tempo sufficiente a lasciarle assimilare la situazione interiormente. Poi improvvisamente riprese a volare e la accompagnò in un tour panoramico mostrandole diversi luoghi della città a distanza ravvicinata, alcuni molto eleganti e curati, altri in stato di abbandono, luoghi cui era stata dedicata poca importanza, con spazzatura sulla via e persone trasandate. Su una targa lesse la data: era l’anno 2025.
Il suo veicolo si avvicinò ad un uomo solitario che stava parlando da solo tenendo probabilmente qualcosa di simile ad un piccolo quaderno vicino all’orecchio. Parlava dolcemente d’amore ad una donna. Alla fine si interruppe. Ma poi parlò allo stesso modo con un’altra donna e poi ad una terza. Quando terminò le conversazioni rimase solo, seduto su una panca nel vicolo dove si era appartato e si guardò intorno con uno sguardo spento. Mutevoli le espressioni del suo viso che passava dallo sguardo di sfida, all’orgoglio personale, al disprezzo, alla dolcezza maliziosa, al divertimento, al disgusto, alla rabbia, alla solitudine, alla mestizia ed all’impotenza. 
La carrozza volante la portò allora in una posizione panoramica, in un punto moderatamente alto, davanti ad una parete in cui lei poteva vedere riflessa sé stessa e la carrozza che la ospitava. Rimase lì, sospesa, per un tempo indefinito. I sentimenti che aveva provato erano tutti lì, fluttuanti davanti a lei, come fossero materia. Cecilia poteva osservarli e studiarli. Le giravano intorno, dapprima a grande velocità ma via via sempre più lentamente. Finché ad un certo momento si fermarono. E trovò la pace.

    Il viaggio su quella favolosa, quanto irreale, carrozza metafisica aveva rivelato molta parte delle emozioni cui lei, troppo giovane, non sapeva ancora dare un nome ed un senso. Aveva iniziato un percorso interiore che non avrebbe più interrotto poiché ormai ne aveva imboccato la strada maestra.

    Quando sentì di essere pronta, chiuse le braccia sopra la sua testa, nascondendo ad i suoi occhi ogni punto del paesaggio fantastico e metafisico che aveva di fronte a sé e, lentamente, ritornò ai suoi quindici anni, al suo 1790, alla passeggiata alla Marina, alla sua carrozza riccamente decorata. Aprì gli occhi e trovò tutto come lo aveva lasciato. Ma lei non era più la stessa.

    Nota: la Meta Carrozza è un progetto dell’artista Marco Papa, in esposizione a Palermo al Palazzo Valguarnera dei Principi di Santa Lucia. Link.

    Palermo, Racconti ucronici
  • 2 commenti a “Racconti ucronici, cronache di una Palermo possibile: viaggi in carrozza”

    1. I racconti ucronici mi fanno sognare la Palermo che amo

    2. Grazie Laura. I miei racconti sono veri e propri viaggi della mente, che per prima cosa io compio con me stessa, fantasticando una “Palermo possibile”.

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