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sabato 27 apr
  • In campagna

    «Mamà, ho visto due corvi grossi grossi», dissi arrotolando tra le mani un pezzetto di morbida pasta. La mamma si fermò un attimo, stava impastando la farina per fare il pane: «I corvi sono schifosi: mangiano le carogne degli animali; non ti avvicinare a quegli uccellacci del malaugurio». Li avevo visti davvero; stavo sui massi del Cozzo Corvo, loro laggiù nel piano; davano delle beccate, tiravano e inghiottivano; si muovevano tranquilli, quasi danzando. Di solito volavano alto, a coppie, scendevano dalla montagna di San Miceli; i loro lugubri versi cadenzati risuonavano per la campagna. Io lasciavo i miei giochi e seguivo i loro voli nella luce incandescente del giorno.
    Nella casa di campagna passavamo l’estate. La cucina era anche sala da pranzo, c’erano poi due camere e una cameretta. Niente acqua corrente, né luce elettrica; si cucinava col carbone e la legna. La sera s’accendeva il lampadario a petrolio, per le camere si usavano le candeline di terracotta con olio e lucignolo di cotone idrofilo.
    L’acqua per le pulizie la prendevamo col secchio alla gebbia (vasca), che avevamo in comune col nonno; quella per cucinare e bere mio padre l’andava a prendere alla sorgente di Sant’Onofrio, una collina con una torre che si vedeva da tutte le parti; la portava in grossi contenitori di terracotta (bummiri) sistemati in due vettuli (sacche) a tracolla del basto (sidduni) del mulo.
    Martedì si faceva il pane. La mamma aveva mescolato il lievito e il sale alla farina, via via vi aggiungeva l’acqua; adesso lavorava la pasta con movimenti regolari delle mani, aiutata maldestramente da mia sorella Giuseppina. A me non permetteva di toccare la pasta. Per farmi stare buono me ne diede un pezzetto da maneggiare a mio piacimento.
    «Mamà, perché Giuseppina può impastare ed io no?». «Antoniuccio, tu sei piccolo, e poi sei maschietto, il pane lo fanno le donne; Giuseppina deve imparare per quando sarà più grande; mettiti più in là, che ci stai addosso». Mia sorella mi guardò con compatimento e disse furba: «Vai fuori, ho sentito la voce di papà, forse ti sta chiamando, vai». Le detti un’occhiataccia: «Non è vero, tu stai zitta!».
    Per me il giorno del pane era una piccola festa, per tutto il tempo stavo intorno alla mamma. Invece a mio fratello Nino, il più grande, non importava nulla del pane fatto in casa. Lui si perdeva nel folto del frutteto, sistemava i laccioli (messi insieme con i lunghi peli della coda del mulo) nei nidi dei cardellini e rimaneva in attesa, per delle ore. Non era facile questa caccia, richiedeva molta abilità e un po’ di fortuna. I cardellini, vispi e diffidenti, spesso riconoscevano quel cerchio estraneo sul nido e riuscivano a rimuoverlo a beccate. A volte qualcuno rimaneva impigliato; Nino lo metteva in gabbia e lo accudiva amorosamente.
    Il babbo era andato all’oliveto di Antoniacci. La mamma disse: «Al Cozzo Corvo non ci devi andare da solo, è lontano, ci sono i corvi e ci può essere qualche scorsone» (serpentello nero lungo circa un metro). Mamma non sapeva che insieme ai miei cugini, spesso in visita in campagna dal nonno, ero diventato un esperto cacciatore di questi serpi. Con Franco e Mario, muniti di canne secche, li stanavamo da sotto i mucchi di legna o tra le frasche, e cercavamo di infilzarli.
    Non era facile, gli scorsoni erano velocissimi; a volte si dirigevano verso di noi facendoci scappare a gambe levate. Avevamo paura ma era una sfida. La mamma smise di lavorare la pasta, prese un coltello e cominciò a tagliarla a pezzi. Disse: «Preparate la tavola» Giuseppina prese due sedie ponendole a qualche distanza l’una dall’altra; io vi appoggiai, con qualche difficoltà perché era pesante per me, la lunga e stretta tavola che stava accostata ad una parete. Mamma di ogni pezzo di pasta modellò una vastedda (una via di mezzo tra la pagnotta e il filone); poi di alcuni pezzi più piccoli fece delle treccine. Distribuì la giggiulena (semini di sesamo) su tutte le forme e le pose ad una ad una sulla tavola; coprì il tutto con un panno e una coperta, per la lievitazione.
    Adesso al forno. Uscimmo fuori; ci invase l’odore fresco del gelsomino, le cicale cantavano a tutta forza; il sole era già alto, filtrava tra le foglie e i grappoli d’uva della pergola. Il mare, d’un azzurro chiaro, saliva verso la linea sottile dell’orizzonte baciando un cielo sfolgorante di luce. Sotto, oltre il muretto della terrazza, lungo il declivio, il frutteto era una macchia verde, con peschi, limoni, peri, albicocchi, susini. In fondo la ferrovia, i frutteti dei piani e il mare. Risuonò dal lato San Nicola il fischiò di un treno; dopo un po’ comparve la locomotiva col suo fumaiolo e la scia di fumo biancastro. Mi venne voglia di correre verso la ferrovia per vedere la sfilata dei vagoni passeggeri, come facevo spesso con i cugini.
    In quel momento spuntò dal viottolo Nino, aveva in mano un cardellino:
    «Mamà, guarda. Giuseppina prendi la gabbia». Era felice. L’uccellino tentava di sgusciargli dalla mano che lo teneva con delicatezza; muoveva vivacemente gli occhietti impauriti. Tentai di accarezzarlo ma mio fratello scostò la mano. La mamma disse a Nino: «E va bene, tienilo in gabbia, ma guai a te se lo farai morire». L’uccellino, introdotto nella gabbia, cominciò a svolazzare furiosamente cozzando sulle sue paretine. Dopo un po’ si calmò, rimase sul fondo. Nino aprì lo sportellino e vi fece scivolare i semini della scagliola; poi da un bicchiere versò dell’acqua nella lattina agganciata alla retina della gabbia; infine appese questa al muro fissandola ad un chiodo. Il cardellino non si muoveva: doveva essere impietrito dal terrore.
    La mamma disse: «Andiamo ad accendere il forno». Sui capelli raccolti a crocchia dietro la nuca portava un fazzoletto di cotone a vivaci colori, annodato alla gola: serviva per trattenere i capelli mentre impastava e per difendersi dal sole. La vestina, bordeaux a fiori, le scendeva sotto i ginocchi. Versò dell’acqua dal secchio nella bacinella, per sciacquarsi le mani. Le palme delle mani portavano i segni dei quotidiani lavori domestici.
    Girammo l’angolo di casa. Prendemmo dallo spiazzo, davanti alla stalla, legna e ramaglia. Papà nel costruire la casa non aveva previsto il forno; avrà pensato, per risparmiare, che bastava quello di nonno Mariano, suo padre; cosicché ogni volta dovevamo fare avanti e indietro con la legna e il pane. La casa del nonno distava dalla nostra un centinaio di metri; anch’essa sul davanti era orlata da una pergola. A quell’ora il nonno non era rientrato dal suo giro nella proprietà; lo faceva quotidianamente con fatica, un passetto dopo l’altro, appoggiandosi ad un bastone e una zappetta, per via di una parziale paralisi delle gambe. Posammo legna e ramaglia vicino al forno.
    Zia Rosa spazzava davanti casa; ricambiò il saluto della mamma. Era ormai una zitella sulla trentina. Indossava una gonna scura e una camicetta bianca. I lineamenti marcati le davano un’espressione di durezza. La mamma diceva che un tempo era stata fidanzata di nascosto; ma il giovane innamorato e i suoi non vennero mai in casa a chiederla in sposa. Zia Nené non c’era; forse era rimasta a Trabia.
    La mamma mise la legna al forno e l’accese. Attese un po’; quando il forno fu ardente, scostò la brace e la cenere con un rastrello e adagiò sul pavimento fave, mandorle secche e diverse focacce, che aveva portato con sé avvolte in un grembiule. Nel frattempo i mattoni delle pareti del forno dal rosso infuocato trascolorarono verso il bianco: si poteva infornare. Mamma raccolse fave, mandorle e focacce. «Andiamo a prendere il pane»
    Tornammo a casa, Trovammo Nino e Giuseppina rapiti a guardare il cardellino nella gabbia. La mamma fece segno a Nino e insieme presero da un punta e dall’altra la tavola con i pani già pronti; percorsi i cento metri di distanza dal forno la deposero su una ghiuttena (sedile in muratura addossato al muro della casa). Mio fratello tornò di corsa al suo cardellino.
    La mamma, dopo aver pulito ben bene il piano del forno, col rastrello e con l’apposita scopa, prima asciutta e poi bagnata, infornò i pani ad uno ad uno con una pala di legno e chiuse lo sportello di ferro spalmandone i bordi con un impasto di cenere. Dopo venti minuti aprì lo spioncino e con una candela ad olio sbirciò dentro. Accertata la giusta cottura dei pani scoperchiò il forno; un intenso profumo inondò la veranda e il pergolato davanti casa. Prelevandole con la pala versò le vastedde croccanti in una grande cesta, che coperse con un panno di lana.
    La mamma soddisfatta fece un respiro di sollievo e si asciugò la fronte madida con un fazzoletto; poi prese diverse focacce e andò a metterle sul tavolo sotto la pergola davanti al nonno, tornato dal suo giro; si sedette sulla ghiuttena: «Vossia ci benedica, papà; il pane è venuto bene. Mangiamoci in pace queste focacce» disse. Il nonno rispose. «Dio vi benedica». Guardò me con un sorriso: «E tu hai aiutato mamà? Vieni qui». Andai a sedermi accanto al nonno che mi accarezzò sulla testa con la sua grossa mano.
    «Il pane è grazia di Dio, ma richiede fatica e sudore fin dalla semina. In casa mia c’erano tante braccia ma il governo s’è preso quasi tutti i miei figli maschi» disse. La mamma posò la mano sul braccio di suo suocero: «Papà, torneranno.» Il nonno scosse la testa; era ancora accaldato, il viso acceso; i pochi capelli grigi, umidi di sudore, appiccicati al cranio.
    Zia Rosa, sempre indaffarata nei lavori domestici, si fece sulla porta. Spesso era piuttosto ingrugnita ma quella mattina ci accolse sorridendo. Portò sul tavolo olio, origano, un pezzo di formaggio e una grattugia. Il nonno tagliò le focacce, vi mise i condimenti e ce le porse. La zia ci onorò della sua presenza mangiando con noi la sua focaccia. Il nonno riprese: «Pinu’ era un ragazzo quando lo chiamarono alle armi. Ora è disperso in Russia, povero figlio mio. Stanotte ho sognato, ho avuto l’impressione che da un momento all’altro sarebbe spuntato da quel viottolo. Anche gli altri tre figli miei chissà dove sono». Si asciugò gli occhi col suo fazzoletto a fiori rossi. Zia Rosa disse: «Maledetta guerra. Che morissero tutti quelli che l’hanno voluta». La mamma: «La guerra sembrava finita, ma prima o poi finirà e torneranno tutti a casa; tante volte i soldati dispersi si ritrovano; bisogna avere fede in Dio».
    Finimmo di mangiare le focacce. La mamma si alzò, prese la cesta del pane: «Vado a preparare qualcosa da mangiare». Ci avviammo sulla stradella verso casa. Passammo davanti alla gebbia: era tenuta piena d’acqua fino all’orlo per farvi bere direttamente i muli. Dal cielo sentimmo il solito gracchiare dei corvi.

    Ospiti
  • 3 commenti a “In campagna”

    1. E’ sempre piacevole leggere i tuoi post.
      Sono dolcemente nostalgici, raccontano di un tempo che non abbiamo conosciuto, ma che doveva essere sereno nonostante la guerra e le privazioni.
      Bravo!

    2. Bellissimo post.

    3. XTIGRE, ti chiedo umilmente scuse per l’enorme ritardo con cui ti rispondo. Condivido quello che hai scritto. Non so se è un bene o un male: se mi prende il desiderio di scribacchiare qualcosa la penna non vuol sentire ragioni, ritorna all’infanzia e all’adolescenza. Debbo essere più deciso. C’è la valvola dello scrivere versi, ma lì si entra in una foresta inestricabile. Buon Natale.

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