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venerdì 19 apr
  • Di nome faceva Michela

    Una volta ero a Pantelleria per un servizio. Era un fine primavera trionfante e l’isola brillava come un diamante grezzo. Avevo trascorso tutta la giornata ad andare in giro per incontrare le persone con le quali mi serviva parlare per scrivere il mio articolo e la sera asciugavo i miei sudori fisici e mentali esposto al debole Scirocco che bighellonava tra i tavolini di un bar sulla piazzetta. Serviva ai tavoli una ragazza piccolina in jeans e maglietta. Era una delle tante, tra ragazzi e ragazze, che venivano sull’Isola per i lavori stagionali cercando di coniugare lavoro e vacanze. Ma a lei non sembrava andare molto bene. Io potrei stare ore seduto a un bar a cucire addosso a chi passa una storia. Così lo feci con lei e fu facile.
    Intanto non c’era molto da cucire: era triste e non faceva nulla per nasconderlo. Forse anche stanca ma soprattutto triste. E poi era facile cucirle addosso qualcosa perché era minuta come una trottolina. Proporzionata ma minuta. Alta poco più di un metro e mezzo, aveva lunghi e foltissimi capelli neri, un viso chiaro e abbronzato, occhi neri profondissimi su un naso ben fatto e labbra armoniose ma senza espressione, tendenti alla piega all’in giù. Corpo non magrissimo, seni piccoli. Una “small doll” di quelle che tu ti aspetti “peperine”. Ma non era il caso suo.
    Venne da me a chiedermi cosa volevo e chiesi un bicchiere di latte freddo. Mi guardò un po’ interdetta e mi chiese: “Non vuole un aperitivo? Questa è l’ora dell’aperitivo”. Prima di decidere se incazzarmi o no, riflettei qualche secondo. Poi risposi semplicemente: “Il latte andrà benissimo, mi rilassa”. Quando tornò col vassoio e il bicchiere di latte mi disse. “Ecco il latte, beato lei che le serve così poco per rilassarsi”. E se ne andò.
    Cominciai a esercitarmi: 1) stava per essere licenziata; 2) il padrone del bar aveva fatto fastidiose avances, lei aveva rifiutato, torna al punto 1; 3) L’isola non le era piaciuta (improbabile); 4) Aveva le mestruazioni e le saltavano su i nervi; 5) Aveva litigato al telefono col fidanzato di Cantù; 6) varie ed eventuali.
    Andai a cena, telefonai a casa per accertarmi che tutto andava bene, chiamai il giornale per dare mie notizie, mi sprofondai nella lettura del Corriere della Sera e di Repubblica. Verso le 23,30 tornai al bar. C’era un solo tavolino occupato da una coppia matura e lei, la “small doll”, se ne stava appoggiata a uno stipite dell’ingresso con le braccia incrociate sul petto. Quando mi vide seduto si avvicinò e mi chiese: “Si è rilassato o le porto un altro bicchiere di latte?” E io: “Forse mi sono rilassato troppo: va bene un caffè”. Finalmente mi sorrise e scoprii che aveva i denti più belli del mondo e che quelle labbra che sembravano una zucca erano diventate come la Carrozza di Cenerentola che va al ballo del Principe. Mi portò il caffè. “Zucchero?”, mi chiese. “No, lo prendo amaro” “Vita troppo dolce”, mi chiese. “No – risposi – senza zucchero aggiunto, naturale. Non ho grandi rivendicazioni”. Mi chiese: “posso sedermi? “certo, le dissi, ma a una condizione: Mi dica cosa prende e ci penso io”. Tacque per qualche secondo poi mi sorrise ancora e disse: “Un panino con pomodoro e capperi e una birra: non ho ancora cenato”. Mi alzai ed entrai dentro al bar dove, al banco, c’era una donna di età indefinita compresa tra i 30 e i 50. Aria arcigna quanto bastava per starmi sullo stomaco. Feci l’ordinazione, lei preparò il panino e mise il bicchiere sul bancone. Chiesi un vassoio. Lei mi disse che la consumazione al tavolo comportava un extra. Misi cinquantamila sul banco e le dissi: “Il resto me lo porti fuori”.
    Tornai al tavolo dove la ragazza stava curiosando nel mio taccuino di appunti. “Non la facevo così curiosa. Anzi, mi dava l’impressione di essere sfiorata dalle vicende del mondo come una talpa nella tana mentre fuori imperversa la tempesta”. “La tempesta – mi rispose – è dentro di me. Non posso fuggire” Mi sedetti senza rispondere. “Adesso mangi – le dissi – a pancia piena si ragiona sempre meglio”. Mi fece un cenno di consenso mentre addentava il panino a piccoli morsi. Lo sbocconcellava, si direbbe. Mi dava l’impressione di chi vuol far durare un momento gradevole il più a lungo possibile. Mentre mangiava, venne fuori la titolare col mio resto. Vide la ragazze e le disse: “Ma che fai Michela? Che è questa novità? La serva si fa servire”? La fulminai con lo sguardo: “Potrò pure offrire un panino a mia sorella” dissi. La megera aprì la bocca confusa. “Mi scusi, che ne sapevo io? Comunque Michela, sbrigati che dobbiamo fare la chiusura e c’è da sistemare”. E se ne tornò dentro il locale. Michela scoppiò a ridere che quasi un cappero le andava per traverso. “Ma lei lo sa che io ho sei fratelli e sono la più piccola? Lei quanti anni ha?” “38”, risposi. E lei: io 26 e ho un fratello che ne ha 39. Quindi si può fare. Grazie per il panino, adesso mi scusi ma vado a fare la chiusura, a Dio piacendo”.
    Mi alzai e andai a sedermi su un muretto che dava sul porticciolo. Davo le spalle al locale. Non so quanto tempo passò. A un certo punto sentii una voce: “Allora, come devo chiamare il mio settimo fratello?”. Mi girai di scatto. Era Michela ma sembrava un’altra.
    Aveva raccolto i capelli in una lunga coda, indossava un vestitino a tubino arancione e un paio di sandaletti bassi con l’infradito. Sembrava una ragazzina appena uscita dalla scuola alla fine delle lezioni un giorno di fine anno scolastico. Le mancava lo zainetto coi libri. “Qualcuno dei tuoi fratelli si chiama Daniele?”, chiesi. E lei: “No, nessuno. Finora. Adesso sì”. Si sedette accanto a me guardando il porticciolo e cominciò “Queste isole sono come le schiave, hai presente? Bellissime, sensuali, morbide come la seta, calde come la passione, procaci come una foresta. Ma devono essere sempre così. Perchè se c’è una bufera, se piove per giorni e giorni, se le nuvole si rincorrono litigando e il tuono urla come il rutto di un gigante, allora tutto si perde. Una non se l’aspetta perché, come dire?, l’Isola del Sogno deve essere una cartolina pure nella realtà. Guarda questo porto in una sera qualunque di primavera quando ancora non c’è stato lo sbarco degli alleati, dei turisti. Guarda quel molo deserto, questo bar del cazzo che chiude prima di mezzanotte. Non ci sono ancora neanche le zanzare. Eppure è così che mi piace. Senza trucco, senza belletto, senza le catene dell’obbligo dell’apparire. Anche l’Isola ha i cazzi suoi, i suoi momenti in cui getterebbe a mare tutti i parassiti che le stanno addosso. Ma qui non ci sono mai terremoti. L’Isola è paziente, ha la pelle dura”. “Tu no, invece, vero?” chiesi “No, rispose, io no. Poco fa quando hai detto alla troia che eri mio fratello mi hai sorpreso. Io non ci avrei pensato. Potevi mandarla a quel paese o scusarti. Nel primo caso forse mi avresti fatta licenziare. Nel secondo sarei stata io a licenziare te. Risi. “Non amo i licenziamenti. Sono pure comunista” “Comunista? Ma dai, ancora? Non lo sai che è fuori moda? Il comunismo sta crollando. Che lavoro fai? Ah sì. l’ho capito leggendo il tuo taccuino. Fai il giornalista vero?” “Sì, risposi, e tu non fai la barista “No, è vero. Sono architetto ma l’idea di costruire mi spaventa, come ti pare?” “Be’ – risposi – potresti sempre occuparti di demolizioni no?” “Me ne sto occupando infatti. Sto demolendo la mia vita. Pietra dopo pietra, giorno dopo giorno”
    “Quale tecnica usi?” “La più semplice: butto via le cose che stanno già per cadere per conto loro. Ma mi sto accorgendo che alla fine non rimarrà niente” “Non è a quest’età che si fanno questi discorsi. Dove hai gettato i sogni?” “Sto a Milano, nel cuore del Paese. Tutto si muove, tutto riesce, tutto funziona. Sì, ci sono i ghetti, la droga, il terrorismo, il grigiore dei travet. La mattina mettono tutti le scarpe comode perché si trotta. La sera mettono tutti le pantofole perché hanno i piedi gonfi. Può mai ridursi la vita a una questione di scarpe?” “Dai – replicai – questi sono luoghi comuni. Verissimi, ma pur sempre luoghi comuni. Hai il mito del buon selvaggio? Piedi nudi e armonia con la natura? Minchiate. Alla fine bisogna aver cura di sé, occuparsi del proprio tempo. Se no deleghi tutto agli altri. Forse sei solo insoddisfatta, forse cerchi solo una stabilità, un centro-di-gravità-permanente”. “Forse cerco il senso delle cose. Solo che le cose sono momentaneamente assenti. Allora non mi resta che guardare il tempo che mi passa davanti. Come quando sto appoggiata alla porta in attesa che qualcuno si sieda al tavolino e mi chieda un bicchiere di latte”. “Il tempo – risposi – ci trascina sempre. Non si può stare a guardarlo. Non ha senso. Né in fisica né nella mente.
    “Dove dormi?”, mi chiese. La guardai sorpreso. Non avevo pensato a questo. Non in questo modo, almeno. Forse ero io che avrei dovuto fare quella domanda a lei, secondo le regole. Il fatto che la facesse lei, in qualche modo, mi spiazzava. “Ho preso un residence -risposi – proprio qui dietro. E tu?” “Ho un dammuso con altri amici ma non voglio andarci. È grande il tuo letto?” “Certo, è grande abbastanza. Ma c’è caldo perché ancora non hanno attivato l’aria condizionata”. “Non importa, terremo la finestra aperta. Dai andiamo” Mi prese per mano e, senza dire una parola, andammo al residence. Una volta entrata spalancò la finestra sulla notte senza luna e spense l’abatjour. Poi prese l’orlo del vestitino con le mani e se lo sfilò rimanendo in slip. Riuscivo a vederla, aveva il seno piccolo con i capezzoli tondi in perfetto riposo. Il suo corpo era tutto proporzionato, sodo senza essere robusto. Dagli slip si vedeva il segno dell’abbronzatura. Aveva trovato il tempo per prendere il sole, evidentemente. Si sdraiò sul letto distendendo una gamba e tenendo l’altra piegata.
    Allargò le braccia e mi chiese. “Tu non vieni”? Mi spogliai anche io e rimasi in mutande. Mi sdraiai a mia volta accanto a lei senza sfiorarla. Aveva cominciato lei. Che continuasse. “Sei sposato?”, mi chiese, “Sì – risposi – da otto anni” “E hai figli?” “Sì, una bambina di 5 anni. Si chiama Liliana” “E tua moglie? Come si chiama tua moglie?” “Milena” “Milena…. come quella della canzone di Gianni Morandi: se vuoi uscire una domenica sola con me….” “Già….” risposi “La fai addormentare mai tua figlia? “Certo, capita”. “E le canti la ninna nanna?” “Sempre” Venne a rannicchiarsi sul mio petto, mi prese una mano e se la mise sulla guancia. “Canta”, mi disse. “Fate la nanna coscine di pollo, fate la nanna….” Dopo pochi minuti dormiva col sorriso sulla bocca.
    L’indomani mattina mi svegliai nel letto vuoto. Feci una doccia, mi vestii e uscii diretto al bar. Lei era lì coi jeans e la maglietta e il vassoio in mano. Mi sedetti a un tavolo e, senza che glielo chiedessi, mi portò un caffè. “Dormito bene?” mi chiese? “Abbastanza, risposi. Diciamo che ho dormito e non so se devo rimproverarmelo…” Mi mise un dito sulle labbra come e impormi il silenzio “Zitto…. non dormivo così bene da anni. Ora non ho più paura”. Partii nel pomeriggio. Di nome faceva Michela e aveva sei fratelli. O forse sette.

    Sicilia
  • 28 commenti a “Di nome faceva Michela”

    1. Mi è piaciuta 🙂

    2. A me di più.

    3. Un applauso sincero, in silenzio.

    4. Bellissima storia, mi ha toccato! Ma, ehm, tua moglie l’ha letta?

    5. Mi stupisci e mi colpisci, sempre!
      Ma come fai?

    6. Mi unisco al coro di consensi, anch’io ho letto con piacere il pezzo, diciamo che in generale leggo i suoi scritti volentieri. Una bella pagina di letteratura che parte da un gioco che anche a me capita spesso di fare, soprattutto nei ristoranti. Guardare la gente seduta ai tavoli ed iniziare a fare congetture sulla loro vita, leggere nei loro sguardi, nei loro movimenti, nel modo di parlare e fantasticarci sopra. Magari, qualche volte, devo averci anche preso.

    7. Molto tenera, bravo.

    8. grande billitteri, grazie.

    9. una dolce favola dei nostri giorni, che un po’ tutti noi vorremmo vivere, lontano da malizie e pudori.

    10. concordo con ugo
      … che bella storia!

    11. Sto ancora cercando di capire chi sià…cmq la storia è veramente bella.

      Posso linkarla dal mio blog?

    12. Sei una scoperta, bravo.

    13. Per umberto: certo, volentieri. Anzi: grazie

    14. Complimenti una storia bellissima.Pensa che anch’io insieme ad altri sono stato quest’estate a Pantelleria e proprio seduti ai tavolini nella piazza antistante il porto c’era una delle ragazzine che serviva ai tavoli che veniva maltratta dalle altre.Noi l’abbiamo difesa.Io credo che si possa anche dormire dolcemente accanto a una donna senza necessariamente turbare il momento poetico pensando che si debba fare sesso per forza per dimostrare di essere uomo.

    15. L’ho appena inserito sul mio Blog…

      Alla prossima… Ciaooooo

    16. Che storia tenera! È proprio vero che quello di cui si ha bisogno non è quantificabile.

      Stasera sono triste. Avevo bisogno di qualcosa di diverso. Ti ho cercato per leggerti e distrarmi.
      Ti seguivo on line sul GDS. Ricordi?
      Un carissimo abbraccio

    17. Complimenti ,un dolce momento di tenerezza…..se tua moglie lo sa non può fare altro che essere fiera di te.Bella storia l’ho letta tutta d’un fiato.

    18. Che bella!!

    19. Ma che razza di storia è??
      Imbarazzante per quanto banale.
      Peggio di te solo Davide Enia.

    20. Delicata, avvincente e semplice, in poche parole splendida.

    21. bellissima!!!

    22. un bel narrare.
      [del resto billitteri e enia sono tra gli autori che leggo più volentieri su rosalio]

    23. se penso a pantelleria mi vengono ii brividi e un isola magica dove tutto puo succedere…..spero di tornarci presto che bella storia pulita e umana grazie mi hai fatto sognare….

    24. un saluto a gabriella anna e giovanni che mi hanno fatto conoscere pantelleria

    25. Che lagna mielosa e banale! Sarebbe stato più interessante se il tipo se la fosse trombata e/o se si fosse svegliato il mattino dopo senza portafogli e con l’AIDS. Così è di una melensaggine unica…

    26. Vero Laydo.
      Michela andava cavalcata a dovere, questo voleva, altro che “coccole”.
      Daniele…perchè!!!!!!!!

    27. bello complimenti ottimo pezzo

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