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sabato 20 apr
  • Alla posta

    Saluto mia moglie: “Vado alla posta”. Tre minuti e sono a San Nicola L’Arena, alle prime case. Per attraversarla mi ci vogliono altri quindici minuti. Il divieto di sosta da un lato è regolarmente ignorato. Le macchine, nei pressi del forno, sono parcheggiate a casaccio, ben distanti dal filo del marciapiede, ogni conducente, che si ferma o riparte col sacchetto del pane in mano, apre e chiude la portiera senza badare a niente (viaggiare fuori tiro di questa specie di arma impropria!). Dove il parcheggio è da entrambi i lati e lo scambio dei veicoli, per la carreggiata più larga, è agevolato spunta la seconda fila: altra sosta, altra pazienza, altro forno crematorio per chi non ha a bordo l’impianto di condizionamento. In più bisogna stare attenti a quel che succede a destra lungo la linea delle macchine in sosta: qui si va per le spicce, si apre lo sportello, si mette in moto, un’occhiata indietro, e via, senza il minimo riguardo per la macchina che sopraggiunge. Arrivo all’altezza dell’ufficio postale. Inutile cercare un parcheggio lì, so bene che devo andare a più di un chilometro dal paese. Ma non è questa la preoccupazione. Davanti all’ingresso dell’ufficio, sullo stretto marciapiede, da un lato e dall’altro, c’è una lunga coda di persone. Giro lo sguardo a destra, anche sul marciapiede aldilà della strada una bella ammucchiata di anime in attesa. La posta è un bugigattolo, bastano tre persone per riempirlo, il resto del pubblico si arrangi, al feroce sole siciliano.
    Una manata stizzita al volante e via a fare inversione ad U… Al ritorno solito ingorgo, altri quindici o venti minuti di zig zag, soste, marce indietro, accelerazioni, pericolo di portiere che s’aprono. Trabia è una meta irrangiungibile. Da una Panda in seconda fila emerge una donna dalla grossa circonferenza e un didietro ragguardevole, con un bimbo in braccia; fulminea riflessione: come avvrà fatto a entrare e ad uscire da quella Pandina? Finalmente fuori dal paese. Un’accelerazione liberatoria sulla discesina e sono ai Pilieri (degli antichi pilieri o pilastri monumentamentali all’inizio della strada di Sant’Onofrio, regno del Marchese Artale, è rimasto solo il nome. A nessuno degli amministratori, dal dopoguerra ad oggi, è venuto in mente, dopo la furia demolitoria del “liberatori”, di ricostruirli).
    Adesso viene il tratto Pilieri – Vetrana, di media sofferenza, per così dire. Confido nel fatto che a quell’ora, quasi le 10:00, l’arrembaggio dei palermitani all’unica spiaggia sabbiosa di Trabia dovrebbe essere completato. Macché, ci sono i ritardatari. La mattina è bello dormire, specie se ti sei goduto il mare dei Chiani il giorno precedente, la serata e parte della notte. Certo, qui non c’è l’ingorgo di San Nicola. Il parcheggio, con tanto di cartelli di divieto di sosta, è solo dal lato mare. Intorno alle macchne, anche in sovrapposizione, si danno da fare famiglie intere, madri, padri, giovinette, giovinotti, bambini: devono estrarre, a fatica, dalla piccola macchina, grossi contenitori di vivande, salvagenti, palloni, ombrelloni, sedioline. Tutto con tranquillità. Per loro le macchine a dieci centimetri, ferme in attesa di poter passare, non esistono. Tutti tranquilli, stranamente anche gli automobilisti in difficoltà. Qui hanno la pecedenza i propri comodi. Tanto, oggi tocca a te, domani a me. Tra automobilisti il fair play tocca picchi impensabili. Se una macchina deve immettersi dalle innumerevoli stradine private sulla statale, non c’è dubbio, ha la precedenza e basta. Se ti azzardi a passare oltre, il minimo che ti possa capitare è un moccolo e la faccia feroce. La consuetudine t’impone una cortesia preventiva, non osservarla ti espone alla riprovazione. C’è, poi, un vezzo tipico: dai villini (li chiamano così, io invece case nemiche giurate dell’estetica, fatte le debite eccezioni) partono frotte di bagnanti per il mare disponendosi lungo la statale l’uno accanto all’altro fino a metà carreggiata; se suoni il clacson si scansano senza fretta, guardandoti male.
    Riesco a superare la Vetrana. Adesso guidare è un divertimento. Di fronte si stagliano la spettacolare sagoma del San Calogero, le Madonie e la Rocca di Cefalù. Il sole è così forte che la costa, il mare, il promontorio di Termini Imerese, le montagne appaiono come avvolte in un finissimo cellofan.
    Sono alla Tonnara, la puzza di alghe marcite è insopportabile. Il fenomeno è sorto da anni. Sul posto ci sono un ristorante e un albergo a quattro stelle. Immagino l’umore dei clienti. Proseguo sulla 113, tralascio anche il secondo accesso al paese: non mi serve, non si trova mai un metro libero.
    Parcheggio ai margini dell’abitato entrando dalla strada lato Termini. Mi affaccio a piazza Duomo dove accanto alla Chiesa c’è la posta. Una coda in doppia fila che si allunga sulla strada dalla porta fin quasi al muro di fronte. Mi avvicino, guardo dentro. La sala è abbastanza capiente. Non c’è distribuzione di numeri: la coda è obbligatoria. Tre sportelli, di cui uno solo per il servizio di cassa. Su diversi sedili sono seduti degli anziani, uomini e donne. La coda dallo sportello tocca la parete laterale, storce e prosegue sulla via. Ci saranno trenta gradi all’ombra. Non esiste impianto di refrigerazione dell’aria. Le donne sventolano dei ventagli, gli uomini rossi in viso sudano le sette camicie, qualcuno usa un giornale per avere un po’ di sollievo. Tutti ordinati e sereni. Sono in attesa di riscuotere la pensione. La giornata è sacra. Dobbiamo essere grati per questa pensioncina che arriva puntuale ogni mese. Uno sportello per novemila abitanti. Nessuno protesta. Molti chiacchierano. Lo sportellista sbriga il suo lavoro con calma e attenzione, per nulla innervosito dalla ressa. Usa perfino parole garbate e pazienti verso una donnetta che osa chiedere qualcosa. Molti occhi sono fissi su di lui. I suoi gesti fanno parte di un rituale che chi può segue senza stancarsi. Lo sportello accanto è vuoto, l’altro è occupato dall’operatore che provvede a smistare e ricevere la posta. Da una finestrella interna si intravede la direttrice che si muove nel suo ufficetto con qualche carta in mano; non si capisce cosa faccia, mentre quella massa di gente aspetta e uno sportello rimane vuoto.
    Cosa faccio? Non ho nessuna voglia di stare due ore sotto il sole a picco. Un’illuminazione! Vado a Termini Imerese. Rientro sul Corso La Masa. Per l’ennesima volta, passando, guardo le cinque aperture ad arco delle Case Sanfilippo, ove hanno sede la biblioteca, l’ufficio cultura, il centro sociale e culturale: al posto delle vecchie pregevoli porte di legno spiccano da decenni dei miserevoli tamponamenti in muratura. Il palazzetto è stato ristrutturato, sono stati rifatti gli intonaci, tinteggiati gli infissi e le ringhiere dei balconcini, se non fosse per quelle murature, al posto di normali portoni, potrebbe presentare un bel colpo d’occhio, esteticamente. Passo diritto. Il traffico sulla via è intenso. Per una volta non mi tocca fare i conti con i continui ingorghi stradali causati per via dell’esigua carreggiata lasciata libera dalle macchine parcheggiate abusivamente.
    So dove si trova la posta a Termini alta: nella zona nuova, in un labirinto di vie tortuose, ma abbastanza ampie, tra orrendi palazzoni. Parcheggio all’ombra di un grande albero (miracolo?). Speranzoso entro nell’ufficio postale. Un’ondata di fresco benessere m’invade. L’aria condizionata mi ridà vita. La sala è ampia e articolata. Lungo un lato su un bancone vi sono allineati nove sportelli con sei o sette operatori; davanti una striscia sostenuta da paletti divide il pubblico dalla zona privacy; in diversi punti sulle pareti sono affissi dei cartelli luminosi con l’indicazione dei numeri e delle lettere serviti nel momento. In un angolo è sistemato un punto vendita di libri, cd, dvd, cartoline, oggettini da regalo. Vi è addetta una ragazza. Il pubblico non mi sembra tanto numeroso. Sta seduto su delle panchine o in piedi.
    Stacco dalla macchinetta il mio bravo numero con relativa lettera di servizio: A 164. Guardo il cartello, si sta servendo l’A 98. Rimango un po’ sorpreso: troppi numeri mi precedono, chissà quanto dovrò aspettare. Vado tra gli scaffali dei libri. Non mancano i bestseller del momento. A Camilleri vi è riservato un angolino a parte: i simpatici libretti blu sono allineati su un piccolo pianale e sulla paretina. Diavolo di un Camilleri!, nei primi sei mesi dell’anno ha sfornato quattro o cinque libri. Come farà? Si dice che Simenon, uno dei suoi maestri, scodellava un libro in diciannove giorni. Ho la sensazione che lui lo batta. Dei suoi ultimi libri targati 2009 ne ho letti due: Un sabato, con gli amici e Il sonaglio. Il primo è un mosaico di piccole storie di un gruppo di amici che si risolvono in una rimpatriata conviviale. Un po’ dispersivo e senza l’imprimatur dell’ambiente e di personaggi tipici della Sicilia. Il secondo è una favola pastorale, la storia dell’amore di un pastorello per una capra. Pruriginoso, no? Nonno Camilleri è un maestro nel catturare l’interesse del lettore. Sempre nei primi posti delle classifiche di vendita. Faletti non può mancare. Ha sfondato di nuovo col suo ultimo libro “Io sono Dio”. Un po’ esagerato, nel titolo, ma piace e diverte. Abbondano libri d’evasione e pubblicazioni illustrate per bambini e ragazzi. In bella mostra una serie bianca di classici, in edizione rilegata e sovracopertina, molto economica. Acquisto Delitto e castigo di Dostoevskij. L’ho letto una ventina d’anni fa; ricordo che mi fece una grande impressione. Mi colpirono la maestria affabulatoria, la suspense che si innesca subito dopo il delitto, la profondità del dramma vissuto dal protagonista, lo scavo psicologico sui personaggi, l’intrecciarsi di storie connesse alla vicenda principale. Avrò da una a due ore di tempo, Raskòl’nikov. mi aiuterà a passarle.
    Mi siedo su una panca. Accanto a me due donne di mezza età. Una di loro, ancora piacente, con pantaloni scuri e camicetta, parla fitto fitto con l’altra che evidentemente deve essere un’amica perché le racconta fatti e misfatti della suocera e del difficile rapporto col marito per via delle continue intromissioni della stessa. Cerco di concentrarmi sul libro ma il report dettagliato della donna sul dissidio in famiglia non mi dà scampo. Finalmente viene il suo turno, posso leggere qualche pagina.
    Tutto a posto. Non mi sembrano vere la modernità dell’ambiente e l’apparente efficienza dell’ufficio. Dopo un’ora sono al crudo e denso racconto delle disgrazie dell’ubriacone, ex impiegato, Marmelàdov. Mi affascina lo spessore della scrittura, la capacità di addensare stati d’animo, sentimenti, pensieri, azioni, dialoghi. Penso a quel che oggi butta fuori l’industria editoriale. Alzo gli occhi, sulla tabella leggo A 119. Un uomo sulla trentina, ma già con discreta pancetta, dà qualcosa in mano ad un anziano corpulento con bastone e l’accompagna ad un posto a sedere libero,dove rimane poco, compare il suo numero e va via, beato lui. Alle 12:20 il numero della serie A è al 145. Comincio a dubitare dell’efficienza. Non riesco più a leggere neanche una parola. Mi alzo per smaltire la tensione con qualche passo. Scambio due parole con la signorina dei libri: “Non c’è una gran folla eppure dopo due ore e mezzo sono ancora qui, e chissà quando arriverà il mio turno”. La ragazza mi guarda con un sorrisino enigmatico, mi dice: “Sa, diversi impiegati sono in ferie…”. Vago per la sala; una donna sulla sessantina, capelli grigi, con una gonna a fiori, mi si avvicina con fare discreto: “C’ha un numero per me?” “Come? Un numero? Ho quello mio”. La donna fa: “Ah…” e s’allontana. All’istante intuisco la paradossalità della situazione: io, unico ingenuo tra tanti furbi. Chi arriva prende non uno ma 4-5 numeri, da distribuire ad amici e conoscenti, e magari, chissà, ad estranei dietro l’allungo di qualche moneta. Mi monta una rabbia incredibile. A tiro è sempre la signorina dei libri. Le dico: “Il responsabile dell’ufficio non sa che qui ogni cliente stacca più bigliettini per fare dei favori agli amici?”. “Lo sanno, lo sanno; all’inizio hanno messo dei sorveglianti, ma poi hanno lasciato correre. Il personale è poco…”. “Bene, bene, così si ricorre agli amici e si aggira la coda, condannando ad un’attesa mostruosa gli ignari! C’è il direttore?”. “No, è in ferie”. La signorina mi guarda con compatimento misto a comprensione. “Che vuol farci?, qui è così”. Mi sfugge: “Sì, è così, ma siamo in Italia o nell’Uganda?”. La brava ragazza annuisce partecipe facendo un gesto con la mano per dire che purtroppo questa è la realtà e non c’è da farci nulla. Riduco in mille pezzi il bigliettino che ho custodito accuratamente per due ore e mezzo. Non voglio rimanere un minuto di più sul posto. Non esistono più tasse e bollette da pagare, devo uscire. La porta è lenta ad aprirsi, le sferro un calcio.

    Ospiti
  • 4 commenti a “Alla posta”

    1. Ma come, proprio quando il suo turno stava arrivando, ha deciso di rinunciare all’impresa?
      Dal suo post, peraltro molto ben scritto, deduco che la sua frequentazione di uffici postali non è così assidua, altrimenti saprebbe che l’abitudine descritta di “impegnare” diversi biglietti per il turno, ancorchè criticabile, risponde secondo me ad una precisa strategia utilizzata dall’utente postale che, ben consapevole del fatto che spesso deve attendere ore prima di poter effettuare un’operazione, approfitta dell’attesa per svolgere nel frattempo qualche altra commissione nei paraggi.
      E, così facendo, intende “tutelarsi” da un’eventuale perdita del proprio turno.
      La mancata sensibilità, da parte dei vertici degli uffici postali, a risolvere il problema è dovuta al preciso intento di favorire, anche con questi metodi, la diminuzione del numero di operazioni da sportello, invogliando l’adozione di altre procedure (addebiti su conti, pagamenti on line, prelievi con carta magnetica ecc).

    2. Corretto. Gli uffici con sportello dovrebbero essere un ricordo del passato. Soprattutto per pagare le bollette.

    3. Il racconto è paradossale ma purtroppo vero.
      Mi sento un po’ in colpa a scrivere che nel mio comune di residenza ho impiegato in tutto 30 minuti tra parcheggio, (poca) fila, foto digitale e pagamento dei diritti di emissione (in altro sportello a ciò preposto dello stesso ufficio), per avere la mia nuova carta d’identità (elettronica di ultima generazione, con microchip incorporato).
      Ma lo scrivo perchè serva da esempio a chi legge che bisogna pretendere anche in Sicilia standard elevati.
      Tuttavia, quello che mi spinge al pessimismo sulla situazione siciliana è l’assoluta mancanza di palle dei siciliani: tutti a subire in silenzio e nessuno -o pochissimi- a protestare. Oppure a cercare di “fottere” il sistema. Una mentalità feudale, da veri servi della gleba.
      Sempre nel comune di cui sopra, in autobus un’anziana signora ha cazziato l’autista perchè non funzionava bene l’aria condizionata (attenzione: non perchè non funzionava e basta ma perchè non funzionava al meglio delle possibilità).
      Ha fatto bene il Sig. Carollo a stracciare il biglietto del turno e ad andarsene. Meglio non rendersi complici di certe sconcezze.

    4. @Fabrix, mi scusi, la sua ipotesi non mi sembra convincente. Prendo ad esempio sei numeri e vado a fare la spesa. Quando arriva il mio turno averne uno o dieci di numeri è la stessa cosa perché in questo caso sono fatti scorrere rapidamente, non le pare? Lei trova intelligente e comodo queste furbizie degli utenti. Contento lei…Però ci rifletta, noi siciliani siamo i più intelligenti e scaltri, perché ci ritroviamo in deficit nella crescita civile e immersi nel sottosviluppo?
      Isaia Panduri, è bello sognare.

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