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venerdì 29 mar
  • Vicolo Culo di Sacco

    C’è una stradina dove non si può finire per caso. è piccola, come un semino nascosto in un labirinto. Non solo devi sapere dov’è ma pure l’esatto percorso che devi fare per arrivarci. Se no ti perdi. La stradina non ha un nome vero ma tutti quelli che la conoscono, la chiamano “Culo di Sacco”. Intanto perché non ha uscita. E poi è proprio buia. Ma sbaglia chi pensa che faccia paura. Anzi è vero il contrario. Il vicolo Culo di Sacco è buio per quasi tutto il giorno tranne, per via di una complessa questione architettonica che non sto qui a spiegare, nelle ultime due ore prima del tramonto quando, quasi con ironia, si illumina proprio mentre tutte le altre strade si apprestano a concedersi alla sera e già si accendono i primi fanali. In quelle ore di luce tagliente che si allontana come una compagnia di beoni che va per fatti suoi intonando canti bislacchi, il vicolo prende vita perché la luce radente mostra tutto il calore della pavimentazione fatta di lastre di marmo di tutte le sfumature, dal rosa di Portogallo, al bianco di Carrara, dallo sfilacciato viola delle cave di Osaka, al giallo striato del Lesotho. Una specie di vicolo arlecchino perché anche le facciate delle case sono tutte colorate e sembrano uscite da un libro di favole. Colori sgargianti come i prospetti sui canali di Amsterdam. Tuttavia questa singolare tavolozza non si rivela se non c’è il pennello del sole a darle vita.
    Ora io non so chi abita nel vicolo Culo di Sacco. Io non ho mai visto nessuno entrare in uno dei portoncini che si affacciano sulla strada. Ne mai qualcuno affacciato a una finestra. Anche se su tutti i davanzali o nei balconi ci sono tante piante alcune con le foglie larghe e i fiori piccoli, altre coi fiori grandi e le foglie piccole. Insomma: quei colori, quelle piante, quella vaga aria di mistero: tutto sembra uno scherzo, una burla. Ma non di quelle studiate per farti balzare il cuore in gola all’improvviso come quando per carnevale i ragazzacci ti fanno scoppiare tra i piedi un “trik-trak” mentre schiacci un pisolino sulla panchina del parco. No. È uno scherzo che, così mi sono fatto persuaso, mira a metterti di buon umore mentre ti avvii verso l’unico negozio della stradina, unica ragione per la quale tanta gente, addirittura da tutto il mondo, arriva lì magari portando un pezzo di marmo del suo paese per “firmare” il selciato. Questo negozio ha un’insegna di legno laccato giallo a forma di archetto che sormonta una bussola coi vetri a scacchi tutti di colori diversi. Sull’insegna c’è scritto: “Carezze”.
    Ora dico io: ma è possibile che esista un negozio dove vendono carezze? La prima volta che me ne parlarono io pensai fosse, che so, un negozio di tessuti così morbidi da sembrare carezze. O di cibi così delicati da carezzare il palato. Invece no. Li dentro si vendevano proprio carezze. Di tutti i tipi e per tutti gli usi.
    Il titolare, che si chiamava Agenore Belgioioso e che chissà da dove veniva, era una specie di mastro Geppetto. Piccolo, gli immancabili occhialini sul naso a patata, l’andatura un leggermente dondolante ma non di fianco bensì avanti e indietro. Come un piccione.
    Il negozio all’interno era davvero strano. Quando entravi c’era una specie di salottino con qualche poltrona di stoffa a fiori un po’ consunta e un tavolino basso con una specie di zuppiera al centro a forma di fungo cappellaccio. Sul piano c’erano dei libroni pesantissimi che in realtà erano i cataloghi sui quali scegliere le carezze che si volevano acquistare.
    Su un lato c’era un juke box che sembrava il robot della reclame della Candy dei primi tempi della tv (Or che bravo sono stato, posso fare anche il bucato?). Un cartellino tutto arzigogolato avvertiva che il juke box conteneva solo, ovviamente, “musica carezzevole”. In un angolo c’era una cesta che era sempre piena di piccoli cuccioli di cane di quelli che se ci passi accanto non puoi fare a meno di carezzarli. Era un trucco da furbone perché Agenore, in quel modo, capiva subito come carezzava il nuovo cliente e questo gli consentiva di aiutarlo a scegliere per il meglio.
    Il bancone somigliava a un’onda del mare. Ma dolce, come quelle del mare lungo, qualche ora dopo la fine della burrasca. Tutta blu col sopra bianco come la schiuma. Insomma non era un bancone bello squadrato, con un piano dritto dove appoggiare la merce. Infatti la prima volta mi ero chiesto come facesse a posare la roba li sopra senza farla scivolare. Lo avevo pure chiesto ad Agenore e lui mi aveva semplicemente sorriso come a dire: non te ne curare, affari miei…
    Alle spalle del bancone c’era tutta una parete fatta di cassettini. Forse era un’illusione ottica, ma la parete sembrava non finire mai, né a destra né a sinistra. Ma le linee di fuga del prospetto facevano pensare come se il realtà il mobile fosse come un tombolo, ricurvo o ruotante, un orizzonte infinito in un mondo finito, come su una sfera. Ogni cassettino, erano tutti uguali, aveva la sua etichetta, quella che serviva a trovare la merce giusta. Ora voi penserete che è tutta una bufala perché, vivaddio, le carezze sono tutte uguali. Ebbene posso smentirvi e l’ho imparato proprio nel negozietto di vicolo Culo di Sacco.
    La prima volta che ci andai fu perché non riuscivo a fare addormentare la mia prima figlia. Tipa tosta, sapete? La notte era “operativa” come un grillo. Voleva giocare, voleva cantare, passeggiare (ovviamente in groppa a me) e rumoreggiava di stomaco denunciando conseguenze di cene forse troppo abbondanti. Si calmava un po’ solo se le canticchiavo non la ninnananna , che le sembrava acqua fresca, ma il cancan. Mi faceva i sorrisini, arricciava il naso divertitissima e non protestava. Ma prima di mettersi a dormire mi faceva sudare le sette camicie di Babilonia. Pensai che le carezze avrebbero funzionato: macché. Fu così che un mio amico, professore di buone maniere all’università di Vladivostok con il quale ero in corrispondenza, mi rivelò che proprio nella mia città c’era un negozio dove avrei potuto acquistare la carezza giusta. Non vi nascondo che mi sentii preso in giro e risposi al mio amico con una certa freddezza. Ma Gregor Vladimirovic mi rispose rassicurandomi che mai e poi mai mi avrebbe preso in giro e allegò alla sua lettera una mappa con le dettagliate indicazioni del percorso da fare da casa mia sino al vicolo.
    Fu così che al tramonto di un giorno di tarda primavera, varcai la soglia di “Carezze” e vidi per la prima volta Agenore.
    Naturalmente caddi nella trappola dei cuccioli e li carezzai. E quando arrivai davanti al bancone lui aveva già capito tutto. Ma mi chiese ugualmente cosa desiderassi e io, un po’ impacciato e non riuscendo ancora a credere neanche a me stesso, glielo dissi. Lui mi sorrise con gli occhi un po’ socchiusi. “Lei – mi disse – ha bisogno della Carezza Dormiveglia. Ben differente da quella che usa lei senza rendersene conto, la Carezza degli Occhi Chiusi”. Lo guardai un po’ stralunato. “Deve sapere – caro signore – che la Carezza degli occhi chiusi si fa quando il bimbo o la bimba già dormono ed è una carezza egoista, fatta per sé e non per gli altri. Serve a soddisfare il proprio amore, a sentire il brivido del calore, quello di un esserino completamente alla mercè. La Carezza Dormiveglia è tutta un’altra cosa. È altruista, percepita dal piccolo e lo accompagna verso il sonno attraversando l’evanescente territorio dell’addormentamento. Ha un ritmo, una pressione particolare, è una carezza ricorsiva e spesso si accompagna con un suono, una cantilena, un rumore lento di tamburo grave”.
    Ero incantato, lo ammetto. Mi ritrovai a chiedere di quante Carezze Dormiveglia avessi bisogno e quanto costasse ognuna. “Vede – caro signore – qui le carezze non si vendono a peso. Lei compra una Carezza Dormiveglia e non avrà mai più bisogno di comprarne un’altra. Perché usata quella che compra qui, imparerà. Il costo? Ho qui un’offerta speciale: una Dormiveglia e una Dolce Risveglio al prezzo di una sola Dormiveglia.
    Pagai senza discutere il prezzo abbastanza impegnativo che mi era stato richiesto. Stavo per andarmene quando Agenore mi invitò a sedermi al tavolo del fungo e mi offrì una tazza di una bevanda calda e lattiginosa, molto buona.
    “Caro amico – mi disse – lei non ha idea di quanta gente entra qui ogni giorno. Vuole sapere quali sono le carezze che vendo di più? Sfortunatamente sono del tipo che mi piace meno. Anzi, le confesso che non mi piacciono affatto. Sono quelle ruffiane, piene di sussiego. C’è la Carezza del Giullare che, mi creda, è tanto infallibile quanto, almeno a me, insopportabile. Oppure la Carezza Servile anche se al giorno d’oggi ci sono prodotti molto più sofisticati ed efficaci”.
    “Naturalmente – continuò Agenore – le carezze della passione sono molto richieste. Vengono ragazzi che cercano la Carezza Primavolta, che non c’è bisogno che le spieghi a che serve. Oppure mogli che comprano la Carezza Nontiscordardimè. I mariti invece comprano la Carezza Togliente che è molto birichina, lei m’intende… Mi intristisco un po’ quando vengono a chiedermi la Carezza Solitaria. In quei casi la vendo ma offro con lo sconto anche la Carezza del Contatto. Un modo di fare una carezza senza chiamarla carezza ma consentendo, come una vera carezza, il fluire delle energie, dei messaggi. Un modo per riconoscersi tra solitari per diventare binari. E non nel senso di quelli ferroviari, lei m’intende”.
    Guardai dietro le sue spalle l’infinita cassettiera e chiesi che tipo di carezze contenesse il cassettino in alto con l’etichetta nera. “Quello – mi disse Agenore – è il cassettino della Carezza Gelida. Può sembrare lugubre perché è la carezza che si riserva ai morti. Ma non s’inganni, amico mio, c’è più vita nella dolente carezza fatta a un morto di quanta non ce ne sia in una carezza distratta, fatta tanto per farla”.
    Adesso vado in vicolo del Culo di Sacco almeno una volta alla settimana per informarmi delle novità. In realtà mi piace moltissimo bere una tazza calda seduto al tavolo del fungo e chiacchierare con Agenore o a vederlo servire i clienti mentre pulisce le lenti degli occhialini con un fazzoletto di seta verde. Ma anche quella è in vendita: la Carezza della Trasparenza.

    Palermo
  • 5 commenti a “Vicolo Culo di Sacco”

    1. Complimenti è bellissima e dice tanto a chi sa ascoltare
      leggendola mi sono ritrovata catapultata in un mondo di fate e di gnomi, in una realtà che non è realtà ma nel contempo molto reale.

    2. Cullato da questa favola ho paura di svegliarmi con il ‘Racconto, o negozio, delle pugnalate’.
      Deliziosa; mi è venuto il desiderio di leggere Homo panormitanus’ e ‘Femina panormitana’; spero di trovarli da Flaccovio.

    3. Ma quanto sei bravo?Oltre ad aver letto entrambi i libri che consiglio vivamente (Antonio,i libri di Daniele li trovi davvero dappertutto), leggo tutti i tuoi post (brutto definirli cosi perchè spesso sono vere perle di saggezza altre volte dei divertissements gradevolissimi) condividendoli anche su facebook!Daniele…continua cosi!
      P.s:ho appena scoperto che eri compagno di scuola di mio padre giusto…qualche annetto fa!

    4. Bella questa storia…una favola per adulti soli…Se nella realtà esistesse un negozio del genere ci sarebbe il pienone.Cmq le carezze dovremmo regalarle(con parsimonia e non a tutti)…si…dovremmo regalarle e non venderle…

    5. gtazie. ho letto una deliziosa favola e ormai superata abbondantemente la soglia dei 50 ho provto una grande commozione viaggiando e scorrendo tra le righe del tuo pensiero
      con affetto e stima
      enzo

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