Palermo 1931, il grande sdilluvio
«L’acqua si scippò le balate e c’era un fiume sopra e uno sotto» – dice il signor Pietro Tramonte.
Pietro Tramonte è il titolare della libreria all’aperto che si trova dietro via Roma, all’altezza della posta centrale. Una libreria itinerante che porta il suo nome, anche se lui afferma che è di tutti: la cultura è come l’aria. I libri si possono prendere, portare, riportare, scambiare e al giusto prezzo perfino comprare.
Il signor Pietro dice di avere origini normanne, e in effetti il rosso ormai sbiadito dei capelli e dei baffi e l’azzurro degli occhi lo confermano. Secondo lui, la sua famiglia non ha perso quei tipici caratteri somatici, anche dopo svariati secoli dalla dipartita dell’ultimo re degli uomini del nord, perché Gibellina, paese d’origine del padre, è sempre stata una comunità, per così dire, chiusa agli scambi etnici. Questo, oltre ad aver preservato la specie, ha portato a un indebolimento della stessa, soprattutto a livello dei nervi.
Se si passa per la libreria itinerante, il signor Pietro, spesso propone di dare una mano a sistemare i libri. Cataste di libri. Si trovano in grandi scatole, in cassette di legno o anche in sacchetti di plastica, lungo tutta la via monte santa Rosalia, o ammassati sugli scaffali del magazzino adiacente. Capita che arrivi gente con valigie piene di libri, riviste, foto e cartoline in dono, e bisogna controllarli e sistemarli. Al signor Pietro può anche venire in mente di spostare tutti i libri gialli, diverse centinaia, da una zona più centrale in altre più nascoste, perché i visitatori non sono molto interessati al genere.
Tra le pagine ingiallite, alcune strappate, tra copertine rigide e altre economiche, mentre si è intenti a sfogliare, consultare, scegliere o catalogare, si può sentire la sua voce pacata porre una domanda.
«Lo sai da dove viene il termine a matula?».
In tutta l’isola, si dice parlare a matula quando qualcuno parla invano, non necessariamente a vanvera, ma di certo senza risultato.
«Nel medioevo i medici, quando andavano a visitare i propri pazienti, portavano con loro un vaso di vetro trasparente e sottile chiamato matula. Fatto riempire il recipiente, lo portavano alla finestra e scrutavano l’urina del malato, declamando frasi in latino. I parenti dell’assistito stavano tutti dietro il dottore in attesa del responso. Mentre aspettavano in religioso silenzio, sentivano quel borbottio fatto di parole di cui non capivano il senso. Il medico parlava al pitale, alla matula. Nel trecento le guarigioni non erano tanto frequenti, quindi ‘u dutturi parlava a matula».
«Io la sapevo diversa» – ribatte uno degli anziani che si aggira spesso in libreria – «Si dice longu a matula di uno che alto sì, ma senza cirivìeddu, che non ha cervello va’, che non serve a niente e il motivo è un altro» – l’uomo porta la sigaretta alla bocca e fa una breve pausa – «Si usava a tempi antichi un tubo lungo pieno di mattola, di cotone va’. Si teneva accanto al letto. All’occorrenza, il marito o anche la moglie se lo appoggiavano nel didietro e ci piritavano dentro. Dice che doveva assorbire la puzza, ma chi era vero? ‘U fetu sempre c’era, a niente serviva va’. Il tubo era lungo, pieno di mattola e inutile, era longu a matula».
Forse a matula deriva da un avverbio greco: màten, termine che ha lo stesso identico significato, ma di questo poca importa.
Certe altre volte il signor Pietro racconta storie di vecchi abitanti di Palermo, ormai caduti nell’oblio. La protagonista di una di queste storie è Maria detta l’Ugghiara. L’Ugghiara è una pianta d’olivo alta e vigorosa. L’olio che produce è di colore verde con striature dorate, dal gusto fruttato, con sensazioni d’erba appena tagliata. Maria la chiamavano l’Ugghiara perché vendeva olio in una piccola bottega al mercato del Capo.
«L’acqua si scippò le balate e c’era un fiume sopra e uno sotto».
A Palermo ci sono state cinque grandi alluvioni. Almeno, sono cinque quelle che nella sua lunga storia sono documentate e riconosciute come tali. L’ultimo sdilluvio come Dio comanda risale al 1931. Fu preceduto da mesi di siccità e da giorni di afa, poi tra il 20 e 24 febbraio di quell’anno, si sono arrizzulate sulla città cinquanta ore ininterrotte di pioggia.
I torrenti che arrivavano da Bellolampo, monte Cuccio, da monte Pellegrino, da Gibilrossa s’ingrossavano e arrivavano a cascata in città. Il fiume Oreto e magari il Papireto e il Kemonia, che erano stati sotterrati anni prima, strariparono. In via Roma c’erano tre metri di acqua e fango. Nelle zone più basse della città almeno il doppio. Case e strade vennero distrutte, la linea ferroviaria divelta. Dove il fuoco aveva sempre arso la terra, era arrivata l’apocalisse come nessuno se la sarebbe mai aspettata e con tutta la furia che il libro sacro aveva previsto. Ventuno persone vennero ferite e dieci furono i morti, alcuni dei quali mai più trovati. Tra questi mischini, i cui parenti non poterono nemmeno piangere un corpo, c’era proprio Maria detta l’Ugghiara.
Dicono che l’Ugghiara avesse speso tutti i suoi soldi per comprare una grossa giara di olio, che avrebbe dovuto rivendere nel suo piccolo catoio. Era una giara grande, nuova nuova, con il tappo di legno che non era ancora stato aperto. L’olio poi era eccezionale, in città non c’era nulla che potesse essere paragonato a quella delizia. Il pomeriggio del primo giorno, in certi punti di via Beati Paoli l’acqua arrivava già a due metri. Maria per nulla turbata dalla forza degli eventi disse: «Se la madunnuzza m’accumpagna ci regalu ‘na vasata». Non diede ascolto alle donne che dai balconi abbanniavano «firmatila, l’Ugghiara ‘mppazziu», né si fece trattenere dalle possenti braccia degli uomini che discendevano dai corsari e dagli schiavoni prima e dai vastasi poi. Le acque le arrivarono alle ginocchia, dopo al ventre e sempre più su. Il fiume in superficie aveva scippato non solo le balate, ma si era portato via anche il resto della strada, fino a otto metri di profondità, fino all’altro fiume, quello che c’era sempre stato. Maria l’Ugghiara fece tre passi e non la si vide più, sparì risucchiata da un gorgo.
Di lei ormai nessuno ha memoria, tranne il signor Pietro Tramonte.
Bel post e scritto molto bene, complimenti.
Complimenti per il post!
Anche i miei nonni mi raccontavano dello sdilluvio del 1931.
Chissá che fine ha fatto la giara …