Siamo tutti Mimmo Mennulato
«Vorrei un amore che mi desse pretesto e ragione di restare a Palermo per un po’, nonostante tutto. E che vorrei essere amata in maniera terrena, senza retoriche mistiche, senza angelicazioni o dannazioni da rotocalco, senza complessi parafreudiani da reperire e sezionare nell’infanzia mia o sua. Senza frenesie di trascendenza. Senza smanie di soddisfare criteri sociali e culturali estranei al nostro sentimento. […] Mi ritrovo a guardare con un senso di ineluttabilità le valigie vuote buttate sull’armadio. Che mi aspettano. Un amore che mi dicesse: sono ateo e ti amo».
Sono ateo e ti amo della elliot edizioni è il romanzo della giornalista Irene Chias, ericina di nascita, giramondo per destino e volontà, si compone di tre storie, tre storie di viaggi per altrettante donne: Ulna, Adele ed Elena. Tre storie che s’intrecciano per ridere, riflettere e piangere. Palermo, sin dalla splendida copertina che raffigura l’autrice allo Spasimo, è co-protagonista del primo racconto
Ursulina, che si fa chiamare Ulna, ritorna a Palermo dopo che s’è affermata come montatrice a New York, gira per le strade e le vecchie casbe, cerca di affermarsi nella capitale dell’Isola triangolare invano. Cerca un amore per restare ma trova soltanto “maschi in delirio”, tra cui spicca un indimenticabile Mimmo Mennullato che dietro il pretesto d’un incontro lavorativo tenta di sedurla e al rifiuto di Ulna reagisce come un po’ tutti in Sicilia, esasperando il nostro carattere melodrammatico:
«Ehi! Dove credi di andare senza pagare?» ora è rosso, agitato. La voce gli è salita di un’ottava. Sembra fatto di qualche gas tipo elio. «Sai che ti dico, nessuno lascia il tavolo di Mimmo Mennulato in questo modo! Cose da pazzi… Me ne vado io, me ne vado!». Prende le sue cose e si dirige verso la porta del bar. Ma prima di uscire si volta, torna indietro verso di me che sono rimasta paralizzata e mi dice con aria minacciosa, puntandomi il dito contro: «E paghi tu, paghi! Ci hanno rotto la minchia queste femmine che si fanno invitare facendo finta di starci e poi di ficcare manco se ne parla! Scroccone siete… scroccone e buttane!». Esce come una furia. Ho la forza di guardare dalla vetrina del bar per vederlo riprendere la sua macchina dalla comoda doppia fila e partire tirato nella sua maschia stizza dopo aver buttato dal finestrino l’involucro del pacchetto di sigarette.
Ulna resta frastornata e pronta a ripartire con la sua valigia fucsia, lo stesso colore del disincanto.
Ma la pagina che dovrebbe essere letta, stampata e distribuita nelle scuole è il capitoletto La cuspide: Ulna prova anche la strada d’un lavoro alla Regione. E lì incontriamo Paola Scotti che incarna tutti quelli che fanno diventare i nostri diritti sudatissimi privilegi:
«A me non serve leggere il curriculum. Le persone le capisco. Afferro l’energia che emanano. Io sono fatta così. Infatti tutti mi temono».
Non so che rispondere. Stringo le mani sulle gambe e mi sento inerme e indefinita come la ragazzina preadolescente di Pubertà di Munch.
E più avanti la tragicomica conclusione, Ulna ha avuto il lavoro: «Ah!» mi dice mentre ho già aperto il cancello e il rumore del traffico di viale Strasburgo mi stordisce. «Sei molto giovane e carina».
«Grazie».
«Ma anche se vieni a lavorare qui, non ti pago».
Nel romanzo c’è un altro protagonista, l’unico uomo a uscirne bene, l’attore Vincenzo Amato, il protagonista di Nuovomondo di Crialese, il simbolo d’un rapporto disincantato con la Sicilia. Perché ci sono siciliani di scoglio e di mare, quelli che restano, quelli che partono per non tornare più. Ma ci sono anche quelli che malgrado tutto ritornano, come le tartarughe marine, solo per depositare le loro uova sempre qui. Non smettendo mai davvero di sperare.
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