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venerdì 19 apr
  • Io, Daiana e i bei ragazzoni neri presso la curva di Solanto

    Daiana mi prende per mano e mi tira dentro la bolgia. Luci intermittenti, bassi a palla, corpi sudati che mi ballano attorno, deodoranti e profumi che si spandono nell’aria, oscurità pregna di afrori, braci di sigarette accese, facce euforiche, abbronzature curate, depilazioni totali, sopracciglia disegnate, sorrisi da pubblicità.
    Io ballo di fronte a lei per un’ora circa muovendomi più o meno come un pinguino che si brucia i piedi sulla sabbia rovente. Il mio grasso in eccesso ballonzola come uno schifoso creme caramel.
    La guardo, però. Ballo un’ora circa di fronte a lei e per un’ora circa la guardo dritto negli occhi. Ogni tanto il mio sguardo va giù, le scruto il corpo, ma ritorno subito a incrociare i suoi occhi. Lei mi sorride amletica, io mi imbarazzo come un adolescente.
    Il problema è che l’adolescente è lei, e sono io quello grande. Quando ci incontrano per le vie del nostro paesino, Casteldaccia, alle porte di Palermo, i vecchietti la scambiano per mia figlia.
    «Non sapevo avessi una figlia così grande».
    «Quant’è bella».
    «Complimenti a mamma e papà».
    «Eh già, il tempo passa».
    «E già. Passa per tutti».
    Sorriso compiaciuto e malinconico da parte di entrambi. Il vecchietto se ne va a morire da qualche parte. Io in qualche modo pure.

    «Questi ci vengono a morire qui» me lo ha detto Daiana proprio stasera in macchina, lungo il tragitto per arrivare in discoteca. Però non si riferiva ai vecchietti di Casteldaccia bensì a quei quattro neri che camminavano a ridosso della Statale 113, all’altezza del curvone cieco di Solanto, in quel minuscolo lembo d’asfalto al di là delle strisce bianche della carreggiata, in una strada decisamente pericolosa per quel tipo di percorso a piedi, dove gli automobilisti corrono come i pazzi, e nessuno si avventura a farla a piedi, una strada insomma che proprio non è stata fatta per le passeggiate. Non era una scena insolita, a dire il vero, ci avevamo fatto l’abitudine. Ormai la formula Bei-Ragazzi-Neri-Che-Camminano-Sulla-Statale-Come-Nessuno-Di-Noi-Si-Sognerebbe-Di-Fare è come i sacchetti di immondizia agli angoli per le strade, i topi che scappano via alle luci dei fari, i crateri sull’asfalto dovuti alla cattiva manutenzione del manto stradale, i cantieri fermi con i cartelli “personale al completo” e le gru che stazionano vicino ai cantieri per cinque, dieci, vent’anni. È, insomma, uno spettacolo consueto.
    I quattro in questione erano bei ragazzi neri, alti, snelli e muscolosi, con la loro inimitabile pelle color dell’ebano, liscia e nerissima, che dà sempre l’impressione di una pulita levigatezza, e vestiti con roba sportiva, colorata, da mercatino, gli indumenti forniti dai centri di accoglienza. Dove andavano? Dove tornavano? Boh. La sola cosa certa è che camminavano per la Statale 113, all’altezza del curvone cieco di Solanto.
    Ci dovrebbe essere almeno un centro d’accoglienza qui, nei dintorni, al riparo da occhi indiscreti. Ma nessuno se ne preoccupa, a parte forse qualche politico che sta con Salvini o qualche comitato cittadino, tipo quel comitato di mamme allarmate che tempo fa ha scritto un comunicato su Facebook sul pericolo che possono rappresentare questi bei ragazzoni neri per le loro figliolette che hanno tutto il diritto di uscire le sere d’estate con gli short che arrivano all’inguine senza essere molestate da questi bei ragazzoni neri, uno dei quali – si narra nei salotti dove si riuniscono i quadri di questo comitato cittadino di mamme allarmate – uno dei quali una volta ha perfino avuto la sfrontatezza di avvicinarsi a una di queste loro figliolette in short inguinali, sorriderle e sussurrarle: «Sei bellissima».
    Cose da pazzi – le mamme allarmate arricciano il naso – Ma come si permettono? E poi, che ci vengono a fare, questi, qui?
    Vengono a rubarci il lavoro, che noi pure qua stiamo morendo dalla fame.
    Vengono ad invaderci, che ci portano a casa l’islam.
    Vengono a fottersi 35 euro al giorno, che perché non li danno ai disoccupati, ai cassintegrati, ai pensionati che non arrivano alla fine del mese?

    «Ci vengono a morire qui, e lo sanno – ha ripetuto Daiana, in macchina con me, lato passeggero – Secondo te perché li vedi sempre camminare sul ciglio di questa strada pericolosissima? È come se non gliene fregasse niente di morire».
    Io, come sempre, ho fatto il superiore.
    «Ma dai, chissà che strade hanno in Africa o da dove cazzo vengono. Magari questa qui per loro non è nemmeno una strada pericolosa, ci sono abituati. Oppure non conoscono le strade con le macchine che corrono, magari sono nati e cresciuti in un villaggio di fango, e quindi non hanno la percezione di…».
    «Invece secondo me è che semplicemente qui ci sono venuti a morire. O forse…».
    «O forse?».
    «…O forse sono solo talmente pieni di vita che davvero non gliene frega niente di morire…ma così cambia tutto».
    «Cioè?».
    «Cioè che forse non è manco un discorso da non-abbiamo-nulla-da-perdere, forse il discorso è un altro».
    «E quale sarebbe?».
    «Boh, mi sono confusa».
    «Io invece penso che il discorso è proprio questo: non-abbiamo-nulla-da-perdere. Non so, loro fuggono dalle guerre, capisci? E perciò si fanno il conto: tanto, perso per perso, che me ne frega, mi metto in un barcone, rischio la vita, vengo in Europa, e poi lì cosa succede succede, sempre meglio di qui in Africa, che mi hanno ammazzato la famiglia, che mio fratellino piccolo gli hanno sparato, che sono uscito vivo per miracolo dal massacro di…».
    «Sì, ok, ma tu che ne sai della guerra lì? E che tipo di guerra è? E perché c’è questa guerra?».
    «Ma che ne so. Parlo per sentito dire».
    «E ti pareva».
    Lei ha sorriso e mi ha stampato un bacio sulla guancia, ho sentito il profumo del suo collo, ho avuto un’erezione.

    Ho dunque provato a rilassarmi ragionando sul fatto che suo padre ha avuto una forte ricaduta esattamente il giorno dopo che è stato nominato presidente del comitato cittadino di residenti allarmati balzato agli onori delle cronache per aver protestato duramente mesi e mesi per impedire l’istituzione di un centro di accoglienza per migranti nel loro quartiere di recente fabbricazione composto esclusivamente da villette a schiera bianchissime e fiammanti. Sì, ragionai, non può essere un caso. Il medico ha dovuto venirlo a trovare a casa – proprio all’indomani della sua elezione a presidente – ha dovuto visitarlo direttamente nel suo letto, perché lui – il padre di Daiana – non riusciva più ad alzarsi. Era come schiacciato dalla semplice forza di gravità che lo attirava verso il centro della terra.
    Che la ricaduta sia stata causata da – spariamole grosse – “problemi morali”?
    Che suo padre, vecchio politicante di sinistra, di quelli che bene o male a loro tempo negli anni Settanta si erano battuti contro mafia e malaffare, che il padre di Daiana abbia notato la lampante contraddizione tra la sua passata vita politica, o anche soltanto i suoi ideali da giovane sessantottino, e quel suo nuovo impegno contro l’istituzione del centro d’accoglienza così fastidiosamente vicino al proprio giardino?
    Mah, problemi morali. Cazzate novecentesche.
    Come cazzate novecentesche sono state le frasi imbarazzate del padre di Daiana, sempre lui, quando gli ho raccontato quell’aneddoto che ho sentito sul mercato di Ballarò. Le sue frasi imbarazzate, quel rigurgito di politicamente corretto proveniente da altri tempi e altre epoche che lo ha investito quando gli ho raccontato quell’aneddoto del mercato di Ballarò, e soprattutto quando – dopo l’aneddoto – mi sono messo a ridere, ridere volutamente sguaiato e volgare, per fargli meglio apprezzare il mio tragico e compassionevole ma pur sempre cinico e brutale, ma in fondo in fondo comunque molto umano, e soprattutto perfettamente al passo con i tempi, magari pure spendibile in ambito professionale preferibilmente nell’ambito dei lavori creativi, il mio scintillante, efferato, spaccaossa senso dell’umorismo.

    L’aneddoto è questo, comunque. Che sia una storia vera o inventata non ci è dato saperlo. Inizi di luglio, una mattina un pescivendolo del mercato di Ballarò, a Palermo, sta tagliando un grosso pesce spada sul suo bel banchetto all’aperto presso il coloratissimo e popolarissimo mercato di Ballaro, a Palermo. Va per tagliare, coltellone in mano, ma presto si accorge di una cosa, sbianca in faccia e, praticamente sconvolto, chiama i carabinieri. I carabinieri arrivano subito, sbiancano in faccia pure loro, e sequestrano seduta stante tutto il pesce spada del mercato di Ballarò, a Palermo. Il pescivendolo che ha chiamato i carabinieri si prende mille insulti e un paio di minacce di morte da parte degli altri pescivendoli che si sono visti sequestrata la merce sotto il naso. Un paio di uomini belli e fatti si piegano in due a vomitare. Decine di signore pigolano e urlacchiano, mentre i maestri del pettegolezzo rombano i motori dando il via alla solita irrefrenabile catena delle voci di popolo che presto si trasformeranno in leggende metropolitane. Un carabiniere, quello addetto al sequestro del pesce spada incriminato con conseguente insacchettatura del materiale ittico (e non solo) in un sacchetto di asettica e trasparente plastica, questo carabiniere qui viene preso da numerosi dubbi circa la solidità delle motivazioni che lo spingono a fare il mestiere che fa. Il sacchetto con il pesce spada sequestrato va dunque a finire nell’ufficio delle cose sequestrate e anche lì provoca reazioni incontrollate. D’altronde, niente di strano. Non capita tutti i giorni di trovare un braccio umano, ovviamente mezzo mangiucchiato e mezzo digerito, e ovviamente nero ebano, dentro la pancia di un pesce spada.

    Come se non sapessimo tutti, comunque, di cosa si cibano i pesci da qualche anno a questa parte, dentro il Mar Mediterraneo. Come se non sapessimo – anche se siamo così bravi a scordare – il mare di sangue che si trova di sicuro scavando solo un poco sotto la nostra sabbia.
    L’immagine è potente. Il mare di sangue. Fa molto Isis. Ci potrei scrivere un racconto e coronare in questo modo il mio sogno di diventare scrittore, così mi resterebbero soltanto pochi altri sogni da coronare, e cioè quello di diventare giornalista, regista cinematografico, regista teatrale, deejay radiofonico, pittore, performer, pensatore, entomologo, botanico, semiotico, antropologo e organizzare eventi per sensibilizzare la cittadinanza sui valori dell’antimafia e la cultura della legalità.
    Il mare e il sangue. Che gran figata. L’immagine mi rimane in testa, come incandescente, intermezzata da lampi di ambizione stratosferica per la mia futura carriera da scrittore, ma ci sono pure altri lampi, anch’essi incandescenti, di desiderio sessuale verso la giovinetta che mi trovo di fronte, il tutto frullato con la sensazione sempre più opprimente di essere totalmente fuori posto, in questa discoteca su un lungomare sul tratto di costa a est di Palermo.
    Ma c’è di più. È proprio sta cosa con Daiana che mi sembra palesemente tutta una cazzata (novecentesca? Perché no?). Non posso proprio capacitarmi come sono finito a uscirci insieme. Ormai saranno tre mesi. Io di solito non le faccio ste cose.
    Una semplice avventura come tante, nata su Facebook nell’ambito delle mie grandi operazioni di rimorchio digitale, in cui ci provo con tante, tantissime, ragazzine e per la legge dei grandi numeri è sicuro che qualcosa ne esce. E dunque con Daiana, almeno all’inizio, è stato come con tutte le altre: chattate, confidenze, incontri, citazioni, perle di saggezza e poi pompini, sveltine, scopatine in macchina – eh si, con lei qualcosa ne è uscito – e lei che ogni volta deve rincasare presto perché all’indomani ha compito in classe.

    Però con Daiana è successo qualcosa di diverso.
    Mi ci sono imporrato?
    Devo aver paura?
    Cosa sta succedendo?
    Daiana, fuggi via da Daiana, fallo per te, mi dico da tre mesi a questa parte, e invece ci continuo ad uscire. Passeggiamo per le vie del paese, addirittura. E stasera ‘sta minchiata della discoteca.

    Il punto è che io sono qua e non ci dovrei stare. Quante volte l’ho detto? Ecco, lo ripeto: qui sono totalmente fuori posto.
    Daiana invece, oh, Daiana è a suo perfetto agio. È stupenda.
    Prima di uscire sua madre l’ha guardata e ha provato un moto di invidia tale che – non appena quello splendido angelo di sua figlia si è chiusa dietro il portone di casa – lei, sua madre, si è buttata nel divano e ha incrociato le braccia sode e perfettamente toniche, modellate alla perfezione grazie a frequenti e faticosi allenamenti in palestra, si è buttata sul divano e ha incrociato queste braccia qui sulla sua quinta di reggiseno soda e perfettamente rifatta, orgoglio di schiere di chirurghi plastici e invidia di schiere di amiche di varia estrazione sociale, ed è scoppiata in un pianto tale che il marito si è addirittura alzato dal letto della sua depressione curabile con uso leggero ma costante di regolatori d’umore e l’ha perfino consolata dicendole che, amore mio della mia vita, è proprio una soddisfazione che questo splendido angelo della nostra figlia adorata, la luce dei nostri occhi, sia venuta su così bene: non solo così bella, non solo così esteticamente meravigliosa che stringe il cuore per la commozione anche solo a guardarla, ma anche giudiziosa, intelligente, studiosa, seria ma non noiosa, dotata di un senso di humour che denota un interessante mix di spiccato acume e umana sensibilità direi insieme artistico e scientifico-razionale. Proprio un gioiello di ragazzina, amore mio della mia vita.
    «È tale e quale a te quando avevi la sua età» le ha detto suo marito stropicciandosi le borse di depressione sotto gli occhi che negli ultimi anni gli si erano incarognite alquanto e che ora lo facevano rassomigliare a un panda malaticcio e flaccido che ha pure perso tutta la propria simpatia e tenerezza, e se non proprio a un panda, beh, lo facevano comunque rassomigliare a un esemplare malaticcio e flaccido di una specie animale qualsiasi, basta che sia praticamente estinta, pronta per essere spazzata via dalla faccia della terra.
    “Daiana è deliziosa – ha continuato a dire lui – Non sei felice? È uguale a te vent’anni fa”.
    Il marito ce l’ha messa tutta, nonostante la sua depressione che gli ispira pensieri suicidi però soltanto nei giorni dispari della settimana.
    Lei però – moglie casalinga laccata e siliconata, madre di quell’angelo di ragazzina che ci si commuove solo a guardarla – ha continuato a piangere.

    Beata lei. Se io fossi rimasto a casa a piangere me la sarei passato meglio.
    Dopo l’oretta di ballo io e Daiana ci sediamo su un divanetto e ogni dieci minuti ci fumiamo una sigaretta. Nella bolgia non si riesce a parlare, però lei viene salutata ogni cinque minuti da un tizio o da una tizia diversa con cui scopro che è grande amica da un numero imprecisato di anni, e con cui riesce – come ci riesce non so – a parlottare o a ridere o a scherzare, o tutte e tre le cose insieme, per una buona manciata di minuti – la manciata di minuti adeguata a situazioni del genere, né troppi né troppo pochi – prima di stampargli/stamparle grossi baci sulle guance e salutarlo/salutarla con la promessa che Comunque Ci Si Becca Presto, Eh.

    Poi torna nel divanetto, ci guardiamo nelle facce, e non è come quando stavamo ballando. Ci guardiamo nelle facce e non abbiamo proprio un cazzo da dirci, anche se io vorrei farle credere che non abbiamo un cazzo da dirci appunto perché non possiamo dirci un cazzo perché oggettivamente dentro questa bolgia non possiamo dirci un cazzo, e che il discorso è semplicemente questo. Cerco di dirglielo, urlando e non sentendo la mia voce, nella faccia stampato un sorriso da scemo, una smorfia da scemo. Cerco di dirglielo ma non credo lei mi crederà – io di sicuro non credo a quello che le sto dicendo – in mezzo a tutta questa bolgia.

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  • 10 commenti a “Io, Daiana e i bei ragazzoni neri presso la curva di Solanto”

    1. Roba che neanche il conte Raffaello Mascetti…

    2. Mi scusi la schiettezza sig. Fricano ma non ho capito davvero una beata minkia

    3. La ringrazio la schiettezza sig. D’Agostino, mi farebbe un grosso favore se lei approfondisse la sua critica. Cosa esattamente non ha capito?

    4. Non me ne voglia sig. Fricano ma non riesco a trovare uno dei canoni tipici del racconto,cioè incipit, trama, finale,non so se vuole essere una storia che racconti del problema immigrazione,se è un racconto erotico senza però mai veramente decollare,se un racconto sullo scontro generazionale,o se è un insieme di tutto ciò,ma posso essere io a non cogliere. Sinceramente come sempre

    5. Non gliene voglio 🙂

    6. Bel “racconto” volevo solo capire perché citare la parte dei bei ragazzoni neri, a Santa Flavia c’è un CAS ogni giorno viene percorsa quella strada verissimo, ma anche da turisti ospiti dell’ex Zagarella ma forse non fanno testo. I CAS non si nascondono da occhi indiscreti anzi non passano di sicuro inosservati, non se ne occupa solo il Sig. Salvini un centro è soggetto GIUSTAMENTE a periodici controlli da parte:

      PREFETTURA (aspetto amministrativo e sui servizi erogati)

      ASP (aspetto igienico sanitario)

      Associazioni umanitarie (Unhcr – emergency ecc ecc) diritti umani

      CARABINIERI ( ordine pubblico e controlli in genere)

      Scusi il mio appunto ma credo che al momento scrivere anche una sola parte sull’immigrazione faccia più notizia, magari non è assolutamente il suo caso.

    7. Vede sig. Fricano lei mi spiazza,prima scrive un racconto lunghissimo e complicatissimo da capire,almeno per me,e poi laconicamente risponde con tre parole alle mie critiche. Così mi spiazza Fricano,così mi destabilizza un attimino. Sempre con simpatia e sincerità.

    8. Sig. Abu-Simbel fare notizia evidenziando un aspetto della vita degli immigrati credo serva a sensibilizzare le persone a conoscere determinate realtà,che altrimenti non conoscerebbero,se non attraverso il filtro distorto e propagandistico della televisione o di Salvini.quindi che ben venga chi scrive e informa sugli aspetti dell’immigrazione,e mi pare che lo abbia fatto anche lei….e ha fatto bene. Con sincerità

    9. Sig. Abu Simbel non è scritto da nessuna parte che io volevo “fare notizia”. E nemmeno “informare” o cose del genere.
      Sig. D’Agostino, mi piacciono molto le critiche, e la gente che mi critica, meglio se negativamente, d’altra parte però ogni commento ulteriore a un proprio racconto, da parte di chi quel racconto l’ha scritto, mi sembra penoso. E’ un po’ come spiegare una barzelletta. La mia opinione invece è che le barzellette, così come i racconti, si “dicono” e basta. Tutto il resto è noia 🙂 Sempre con sincerità e simpatia (per entrambi i commentatori)

    10. TOUCHÉ…..

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