Succede quasi a scadenza annuale. Di solito a inizio estate, qualche volta alle soglie dell’autunno. Qualcuno si stiracchia, mette mano alla tastiera e disserta sullo stato della letteratura e/o della narrativa palermitana. L’argomento della conversazione di solito verte su due tormentoni: lo strapotere di genere del giallo alla Camilleri (o, discutendo di Palermo, sarebbe più preciso tirare in ballo Santo Piazzese) e la mancanza di un romanzo sociale e civile di conio palermitano, un Gomorra isolano, per intenderci. I tormentoni sono intercambiabili (perniciosa moda del giallo prima e carenza d’impegno poi, o prima la carenza d’impegno e le colpe del giallo che chiuderebbero il cerchio). La conclusione è sempre la stessa: lo spessore letterario a Palermo non esiste. Non c’è una opus magna, una bibbia di riferimento che riassuma in sé tutto quello che di Palermo e su Palermo bisognerebbe scrivere (per salvarla, almeno sulla pagina, beninteso): trama avvincente, stile tagliente, struttura prodiga di riflessioni, j’accuse socio-morale, spessore che solletichi l’attenzione di critica e di giurie di premi nazionali e internazionali, scandalo, cronaca, ironia, agganci storici, personaggi indimenticabili, uso creativo – e filologicamente rigoroso – del dialetto. Insomma, si vagheggia di un’opera (e di un autore) che riassuma tutte le virtù dell’arte del narrare, e la cui esistenza sarebbe possibile solo se si unissero venti cervelli pensanti e raccontanti sotto un solo nome, o meglio ancora se si materializzasse un genio letterario al pari di Dostoevskij (ma panormita) che contenga in sé una visione limpida, netta, definitiva della “creatura Palermo” e delle sottocreature che vi si agitano. Nel frattempo, in questa operazione lamentosa e velleitaria, io credo che ci si perda quello che già esiste. Continua »
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