Oggi disponiamo in abbondanza di prodotti agricoli, magari belli e grandi da vedere, reperibili tutto l’anno dal fruttivendolo, ma che non hanno più l’originario sapore. La mia generazione detiene la memoria di sapori (di frutta, verdura, ortaggi, ma anche della carne, sia bianca che rossa o del pesce non di allevamento) che i nostri figli e nipoti non apprezzeranno mai più e dico “apprezzeranno” perché chi ha avuto la fortuna di provare la differenza sa che siamo oggi più ricchi di prodotti belli come oggetti di plastica, ma poveri di identità di sapore e spesso integrati con i più improbabili additivi chimici.
Siamo tutti vittime di una planetaria tendenza all’omologazione dei sapori, importati attraverso semi selezionati magari in Olanda o Israele, o attraverso concimi o mangimi di produzione industriale. La memoria dell’originario sapore di una banale salsa di pomodoro o di una ciliegia (che un tempo poteva riservare anche un bruco) è destinata a morire con la mia generazione per lasciare spazio, definitivamente, al gusto agroindustriale omologato, grazie all’uso (e all’abuso) di acqua, fertilizzanti chimici e ormoni (vegetali e animali). A meno che non pretendiamo, come consumatori (e aiutiamo i nostri figli a scoprire), prodotti, forse meno grandi, colorati e belli da vedere, ma saporiti, profumati. Privilegiamo troppo la quantità sulla qualità. Perché paghiamo la frutta e la verdura in base al peso e non in base al sapore, anzi, in base al peso a parità di sapore? Il supremo tribunale per giudicare un cibo è il palato, non la vista. Continua »
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