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Sito: http://www.danielagambino.altervista.org/

e-mail: danielagambino@gmail.com

Biografia: Giornalista e scrittrice, ha pubblicato saggi e romanzi fra cui la guida 101 cose da fare in Sicilia almeno una volta nella vita per Newton Compton. Si è occupata di diritti civili e fenomeni sociali. Il suo ultimo libro è il romanzo La perdonanza, edito da Laurana. È addetto stampa della Fondazione Teatro Pirandello, oltre a lavorare nella comunicazione e nell'editoria.

Daniela Gambino
  • Una questione di accento

    Sì, una questione di accento, e non parlo di grammatica, ma di altra norma ferrea, difficile da sovvertire per i tradizionalisti e che regola, ahinoi, le nostre vite: l’inflessione, la cadenza, quelle vocali pronunciate aperte, quel parlare tuo e solo tuo. Quello che ti rende riconoscibile e fa chiedere: sei del Sud?, si sente, siciliana?, e di dove?. Non bisogna nemmeno allontanarsi tanto, un mio amico catanese mi diceva sempre: adoro la tua pronuncia palermitana. Esiste tutta un’offerta formativa che promette la perdita dell’accento, li chiamano corsi di dizione, li frequenta chi parla in pubblico, presentatori, attori, e qui è giusto segnalare un’inversione di tendenza, perché teatranti di spessore come Davide Enia o Emma Dante, ci hanno liberato dalla tirannia dell’accento pulito e hanno recuperato il legame tra arte e identità e parlano così come hanno imparato (oltre l’Isola? Un nome su tutti: Marco Paolini). Ma l’accento dipende in parte dall’identità e viceversa, oppure è solo una questione d’ambiente?, perché non bisogna certo essere di puro sangue siciliano per acquisire un’intonazione credibile se frequenti a lungo dei veri siciliani. O no? Il sociologo Pierre Bourdieu – che nella sua scientificità non era “indifferente ai sentimenti” – diceva, più o meno, “ci sono delle pronunce legittime e tacitamente riconosciute…e delle pronunce dominate. Uno degli indizi del riconoscimento della dominazione…è il fatto che si tenda a correggere il proprio accento”. E, parlando di un ipotetico personaggio che emendi – per usare termine giuridico – dagli errori di pronuncia il suo discorso in una situazione pubblica, diceva ancora: “…il che rischia però di svalutarlo ancora di più, perché una volta scomparso il tratto pittoresco del suo accento iniziale, si troverà allora nella situazione piccolo-borghese della ricerca della distinzione, in una situazione di pretenziosità…”. Quasi come se riconoscesse la propria inferiorità anche suo malgrado. Come se fosse lui per primo a credere nell’esistenza di un accento più degno degli altri.

    Palermo
  • Lo spirito di servizio

    Ho visto la faccia di Provenzano. Come tutti. La tivvù me l’ha fatto intravedere, insieme alla folla insorta. Una faccia normale che conta 73 primavere nutrite a cicoria bollita e ricotta calda. Una faccia quasi rassicurante che avrei potuto vedere ovunque: in autobus, a piedi, in bicicletta. Una faccia che non mi avrebbe mai messa in allarme. Una faccia tradita da un pacco di biancheria pulita. Il procuratore antimafia Pietro Grasso ha dedicato l’operazione alla memoria di Falcone e Borsellino, l’abbiamo sentito tutti, abbiamo ricordato. La sorella di Borsellino, Rita – candidata come residente della regione Sicilia – intervistata in merito non snocciola nomi ma ricorda tutti quelli che si sono impegnati nella lotta. Sì, ha pensato al passato, dice “Paolo”. Ripete quel nome, ogni volta, come se lo carezzasse. Questa donna, con il suo senso pacato, inesorabile, di dovere e giustizia, ha il potere di emozionarmi profondamente.
    Intanto sfilano su raitre, a chiudere, le immagini di un’intervista a Giovanni Falcone. Una faccia paciosa, occhi sempre sul punto di ridere. “Ma chi glielo fa fare?” chiede il giornalista: rischi incalcolabili, sonno rubato, il sacrifico – quieto – di una vita normale. E lui minimizza, quasi sorride, come se la buttasse lì: “È lo spirito di servizio”.

    Palermo, Sicilia
  • Certe cose da imparare

    L’altra volta ero con una mia amica a pranzo e ho visto un manifesto: stava attaccato alla vetrina di un bar, ritrae una classica bionda perfetta e angelica e porta la scritta, che suona più o meno così “vuoi conoscermi? Impara il russo”, segue spot di corso di russo che si svolge in quel di Palermo. È chiaro che il pubblicitario che ha concepito tale affissione non ha minimamente riflettuto sull’ipotesi spericolata che qualche donna, magari, potesse essere interessata a imparare il russo e che forse, per par condicio, avrebbero dovuto pensare a dei poster apposta per loro, cambiando radicalmente l’approccio. Inutile poi scrivere quanto il poster da me (esageratamente) e attentamente osservato solletichi l’immaginario siculo più intramontabile, quello del maschio conquistatore. Ci notavo una velata sfrontatezza, o esagero? Mi ricordo i bei tempi in cui ci si industriva a imparare le lingue straniere per il solo gusto di viaggiare con disinvoltura. Era solo pudore? Facevamo gli ipocriti? Anche se mi si fa gentilmente notare che il vero seduttore non si fa mai scrupoli se non conosce la lingua, l’amore è un linguaggio universale, o no? A ben guardare, accanto alla foto della super bionda (eh, sì, sono invidiosa, ché, si vede?) si dichiara che quest’ultima è una miss Russia o una roba del genere.
    Questo per sottolineare che non trattasi di giovane bellezza qualunque: se si finisce in Russia a snocciolare l’idioma appena appreso non è detto che si incontri nell’immediato una così. Magari, chessò, toccherà pure cercare.

    Palermo
  • Sulla tematica dell’avvicinare

    Ci sono modi di dire che mi stanno a cuore. Noi palermitani, ad esempio, facciamo un uso personale e quasi sentimentale del verbo avvicinare. Non so se questo sia mai stato teorizzato, ma noto che lo ripetiamo spesso, “che fa? Avvicini?”, “ma quando avvicini?”, “ma perché non avvicini?”. È un modo per dire, “ma quando passi?”, “ma quando ti vedo?”. Delle volte, se lo dico a qualcuno che palermitano non è, mi sento rispondere: “ma cosa devo avvicinare?”. Avvicinare tra i suoi sinonimi vede accostare, appressare, unire, addirittura: conoscere. Non è affatto sbagliato, a ben vedere, basterebbe specificare il soggetto: “perché non ti avvicini qua?”. Nell’animo palermitano è sempre presente un bisogno di intimità, di mescolanza, basti pensare ad espressioni come “sangue mio”, – che, mi faceva notare una mia amica, fa pure un poco impressione – o ciato mio, letteralmente tradotto con“fiato mio”quando non condensato in ciatò, con l’accento sulla o, che riporta appunto, all’idea di fusione, di essere un tutt’uno, un solo fiato. L’avvicinamento delle volte lo utilizziamo per esprimere il già compiuto “ci ho avvicinato”, che non c’entra niente però mi ricorda assai il “ci ho bussato nella spalla”, che vuol dire, più o meno, ”ho attirato la sua attenzione”.

    Palermo
  • Una mente femmina

    No, non lo volevo dire. Però me ne sono accorta. Ci sono troppi manifesti di maschi desnudi in pose da strapponi per non accorgermene: è la festa della donna. Tutte le discoteche si sono attrezzate, in ogni dove si organizza un’ospitata, uno streap tease innocente, un attore, strappato a una soap opera o da un trono della de filippi, si presta al gioco: allietare la vista del pubblico mùliebre. Perché questa è la serata giusta: quella in cui le donne escono da sole (sole, pure se sono in due, tre o quattordici, se non hanno cavaliere per “sole” passano, mi fece notare una sera la mia amica Valeria) e vanno a rispolverarsi il senso della vista, ormai assuefatta al loro partner, per comportarsi come lui davanti a veline e schedine (non necessariamente intese come i moduli dove mettere 1,2,x). Ma è proprio così o si tratta dell’ennesima proiezione dell’universo uomo, che rigira in chiave femminile, una serata di festeggiamenti così come la intenderebbe un lui? Magari non si regalerebbero le mimose, che non è proprio macho, però un giro per i locali se lo concederebbero volentieri. Già di per sé, la conquista di poter uscire da “sole” non è mica da ridere, e non la voglio liquidare così, come se fossi una donna “liberata” che guarda dall’alto in basso i fans di “amici della de filippi”, ma non dovrebbe risolversi così, nello spazio di una notte passata ad applaudire un tronista. O no? Cosa si dovrebbe fare oggi, secondo me? Riflettere? Una sbirciatina in giro la darei pure, ma non mi illuderei di festeggiare niente di che, se non gli incassi della discoteca. Cercherei di ripetere spesso, se mi diverto, mica solo una volta all’anno. In discoteca ci sono cresciuta, è storia nota, la mia, tutti i miei romanzi parlano di discoteche e di dee jay. Comunque, in città ci sono valide alternative, come rosalio stesso informa, nemmeno necessariamente troppo seriose, i balletti ce li possiamo, oserei dire dobbiamo, concedere (sul perché le donne abbiano sempre voglia di ballare se ne potrebbe discutere a lungo, e gli parta subito la danza non appena sentano musica che le aggrada). Rimango in attesa di commenti che mi aprano la mente femmina che mi ritrovo.

    Palermo
  • Tradurre le “cose”

    “Ma sei o non sei picciotto di bella, ma allora te l’accolli?”, “see, c’ha po’ fari”.
    Le due frasi significano, rispettivamente, la prima: dimostrami quanto sei in gamba, se sei in grado di prenderti questa responsabilità, la seconda, d’acchito potrebbe voler dire: ce la puoi fare, in realtà esprime il contrario: è un “provaci, dai, su, che ti faccio vedere io come va a finire” provocatorio.

    Nel nostro linguaggio, parlo del siciliano, ci sono molte espressioni che sottintendono. Spesso, e me rendo conto nella traduzione continua dalla costruzione della frase siciliana all’italiano, che intraprendo nelle discussioni pubbliche e in scritti di ordine burocratico, io, sottintendo: uso la parola cosa, infinite volte, e spesso, in sostituzione del soggetto. “Ora vi dico quella cosa, a proposito di quelle delle cose che ieri mi dicevi”. Scelgo le mie frequentazioni in base alla capacità intuitiva di interpretare le “cose” dei miei discorsi. Diciamo pure che l’italiano sarebbe molto noioso senza le digressioni dialettali, e non darebbe più motivo a qualche pedante indottrinato di farsi bello, facendo notare gli strafalcioni, e non darebbe motivo a personaggi come me di prendere la penna in mano e di scrivere. Sono anni, praticamente dall’infanzia, per esempio che mi chiedo il significato profondo dell’espressione (non tanto simpatica a dire il vero, largamente utilizzata alle scuole elementari palerrmitane come elemento scatenante di invettive e scazzottamenti)“u pacchiuni ‘nchippatu ‘i sapuni”, forse preludio dell’altro detto “ma va lavati và”, che mandava a quel paese, e non ad attenersi scrupolosamente a norme igieniche (perché, suppongo, se uno è insaponato si dovrà pur sciacquare). Sull’espressione poi “chini chini come lattuchini”, mi sono interrogata a lungo. Ma che vorrà dire?

    Palermo
  • Come ti declino il verbo cucire

    Ogni volta che affronto una tematica squisitamente palermitana mi rendo conto di non essere assolutamente forbita in questo campo. Me la guardo da estranea, la città, ad esempio mi colpisce molto l’appellativo cucì. Cucì, qui, non è il passato remoto del verbo cucire, ma l’abbreviazione di cugino. Non vanta una variante al femminile. “Cucì – si dice al passante -, cucì ma ddiri ca ora è? Cucì, ma fari passarmi, cucì?”. Ogni tanto lo senti dire per esteso, “cugino”, ma quasi sempre non esiste nessun vincolo di sangue tra te e il cucì, nessun rapporto di agnizione (si dice così?) è un appellativo che con un cugino vero ti guarderesti bene da usare. Il cucì echeggia tanto quanto il cumpà (che ha la variante femminile, commare) che è l’abbreviazione di cumpare, ma si tratta di due definizioni lontanissime tra loro. Il vocabolario Zingarelli recita che si definisce compare chi battezza il tuo figliolo o ti compra l’anello per la cerimonia nuziale (il cosiddetto compare d’anello), fra i sinonimi che snocciola il thesaurus del computer si trovano connivente e favoreggiatore anche se non manca la semplice parola “amico”. Sono compari il gatto e la volpe, e il comparato viene rispolverato, spesso, nei rapporti delinquenziali, ma non è di questo che voglio parlare, quanto, piuttosto del rapporto amicale. Per individuare quando il cucì si affianca o sostituisce il compà, basta essere un tantino curiosi, domandare in giro, informarsi. Il compà è il tuo amico fraterno, te lo ritrovi sempre, è quello che presenti pieno di orgoglio e dici “questo è mio compare”, allora, mi spiegano, ti verrebbe in mente di apostrofare col compà uno sconosciuto qualsiasi e domandargli: “compà, mi fai addumare?”, quello si potrebbe offendere, “cumpà a cui?”. Come affibbiare tanta fiducia al primo che passa?. Il cucì però glielo puoi anche dare, per questo il “cucì” può essere il prologo di una sciarra “cuci, chi fa? Ti levi ri ‘n menzu i peri?”. Il cucì, tanto per fare sociologia, è un modo per ripetersi “io appartengo a questa gente”. Forse la differenza col compare sta qui: “tu sei mio complice – sembra riassumere -, anche se non sei necessariamente, come me”, e forse per questo di apprezzo di più. O non lo so, boh, voi che dite?

    Palermo
  • Veri toco assai

    L’altra volta ci ho pensato. Perché mi è sceso giù come da un angolo recondito del cervello e l’ho buttato lì: “è tochissimo”, ho detto. “È una gran tocata”, ho fatto poi, a raccontarlo, “non puoi capire è veramente toco”. Dovrei indagare la radice linguistica della parola toco, che ha un omologo efficace nelle espressioni “figo”, “fighissimo”, “‘na figata pazzesca” che si usano continuamente altrove nella penisola. Noi, con il toco, possiamo davvero vantare un’espressione autoctona. Negli anni Ottanta, qualcuno tornò dall’America e impose il nice, anzi il nais, ai palermitani, mi ricordo che si diceva continuamente è “veri nais”, forse qualcuno la dice ancora, per manifestare amore per l’inglese americano o per gli anni Ottanta, o per entrambi i fenomeni (oppure perché gli piace assai). Ci sono espressioni ormai desuete tipo “la mia tacca”, che stava per gruppo di amici, e denominava sia un uso assolutamente personale della parola tacca, sia un movimento alternativo alle più convalidate comitive. Altra definizione sorpassata, “la comitiva”, nel thesaurus del pc, è perfettamente resa con sinonimi tipo combriccole mentre per “tacca” mi rimanda ad incisione, segno incavato, traccia. Che “la tacca” fosse un modo per lasciare il segno nei rapporti amicali?

    Palermo
  • Mi Amat o non m’amat

    Scoprii stamane che l’abbonamento mensile alle linee di trasporto pubblico dell’azienda denominata amat costa euro 27,30 per i lavoratori dipendenti e ben 48 per chi è un lavoratore a progetto, un ex cococo, per intenderci. Indi, per i flessibili, l’abbonamento si estende, invece che restringersi (sarà diretta conseguenza della flessibilità?). Una poi è presa dallo sconforto, si pensa che sì, allora è vero che questi lavoratori a progetto non sono tutelati, che una ce lo aveva questo sospetto: che collezionano tutta una serie di doveri e pochissimi diritti. Che forse uno che non ha un contratto fisso dovrebbe almeno essere messo in condizione di potersi muovere civilmente in bus, che inquina di meno, snellisce il traffico, prende meno multe, o no? Tanto, manco la macchina si può prendere, il lavoratore flessibile non lo può mica comprare l’abbonamento per il parcheggio nelle zone blu, vi sembra assurdo? È così, il flessibile deve pagare euro 0,75, o un euro intorno all’ora per il parcheggio, mentre, è inutile che ve lo dico, ai lavoratori dipendenti l’abbonamento per le zone blu si può fare e costa (a seconda delle zone) 30 o 35 euro al mese.

    Palermo
  • Un colpetto di tosse

    Nella sintassi palermitana e nello scambio verbale, il pidocchio – altrove piuttosto noto solo come infestatore di capelli -, ha una sua credibilità. Un’espressione, spesso utilizzata dice: “chi vo fare accapiri? Che u pirocchio avi a tussi?” È traducibile con: cosa intendi farmi credere? Che il pidocchio ha la tosse?. La usiamo quando riceviamo scuse poco attendibili, giustificazioni affrettate, racconti inverosimili o troppo filosofeggianti, in riferimento a un darsi un tono spropositato. Perché, diciamocela tutta, non è che un pidocchio raffreddato sia poi tanto degno di nota.

    Si dice inoltre “pirocchio arrinisciuto”, di chi si è dedicato alla scalata professionale, commerciale ed ha collezionato successi che non lo hanno affrancato, però, dalle sue umili, umilissime, origini che gli vengono, così rammentate. A ben vedere la frase vuole letteralmente dire: il pidocchio riuscito, e apre a un’infinità di scenari, cosa crediamo che possa riuscire a fare un pidocchio?, da dove nasce questa similitudine? Perché là dove dovrebbe riuscire un pidocchio non potrebbe fare lo stesso, che ne so, una formica?.

    Palermo
  • Il complemese di Rosalio

    Oggi primo complemese di Rosalio. Devo dire che sono orgogliosa. Questo picciriddo nostro, come tutti i picciriddi coi nomi strani, è stato opportunatamente ribattezzato. Ribattezzare, secondo me, è un atto affettuoso. Mi ricordo di un certo Aristide, per esempio, che per motivi di comodità, nella cerchia di amici chiamavamo Arista (egli stesso, col tempo, si autonomina così). Mi ribattezzarono lagambina, così tuttoattaccato, per non confondersi in una redazione che contava già quattro Daniela, tanto che un giorno, un tizio mi chiese “lagambina? però i tuoi genitori, che nome t’hanno messo”. Rosalio è stato via via ribattezzato Rosario, (che mi fanno “sai, ho visto Rosario” e io là a domandarmi “chi sarà mai quest’amico comune, ‘sto Rosario, che proprio non mi ricordo?”) continuando con Rosòlio, e senza riferimenti agli antichi liquori, semplicemente Rosolio, e naturalmente Rosòlia. Visto che siamo pure in tema di anagrammi…

    Rosalio
  • Le regole dell’edit star

    Io amo molto il taglia e cuci, e non parlo di bricolage, non è che mi faccia i vestiti da sola, mi piace chiacchierare, adesso, in un eccesso di manie tecnologiche, è denominato: copia e incolla. Ieri, alla presentazione di Rosalio, c’era un sacco di gente. È stato bello intendere che tutti conosciamo tutti, che c’è un filo sotteranneo che unisce la nostre vite, le nostre carriere, tutto un flusso di meravigliose collaborazioni, non è che avessi pretese di esclusività, però ho capito che il copia e incolla va dosato oculatamente…
    Da ieri posso fregiarmi di aver vissuto un vero momento da edit star, sotto il flash dei fotografi e gli obiettivi delle telecamere. Devo dire che mi sono trovata parecchio bene in quel ruolo lì, avevo un’espressione di totale compenetrazione nella parte. Continua »

    Rosalio
  • Prerogative panormite

    Una delle prerogative dei palermitani è sputare. Lo sputo, per noi, è una grande risorsa: si sputa quando non si ha niente da fare, si scatacchia per darsi un tono, per far passare il tempo, per passare da duri. Uno sputo non si nega a nessun marciapiedi, anche a quello bello e lustro di via Libertà, anzi c’è più gusto, denota grande strafottenza. Lo sputo in faccia, recentemente tornato in auge grazie all’impegno del calciatore Francesco Totti, è un insulto ultimo di cui si fregia la palermitan people accompagnato dalla massima: “si cosa di sputariti nta facci” piu minacciato che praticato, lo sputarsi in faccia rimane un diversivo trasversalmente utilizzato dai bambini di ogni ceto e latitudine.

    Sputare lontano migliora la mira, il suono che accompagna l’operazione è quello puh che è diventato tono onomatopeico per fumetti e discorsi figurati. “Puh – si dice – cosazza inutile”, che sta a significare: “cosa da sputarti da quanto non servi a niente”, oppure si apostrofa con un prosaico “puh…cuinnutu chi siii!” che starebbe a dire: “ti dispregio”, e viene ampiamente utilizzato anche verso chi non disponga necessariamente di compagna fedifraga.

    Palermo
  • Non sono più timida

    È uso comune dichiararsi timido. magari lavori in tivvù, sei un giornalista d’assalto, oppure hai appena fatto un calendario artistico. Però, l’occasione non te la lasci proprio sfuggire “io sono timidissima, faccio uno sforzo enorme per essere così”. Come dire, “me lo dovete riconoscere che mi applico bene”. Fra tutti gli aspetti del carattere, pare che la timidezza sia la più cangiante, è tipo un foulard, un accessorio, la puoi cambiare a seconda del vestito che indossi (o non indossi). Ho letto intervista a Steve Martin su Vanity fair di questa settimana, alla domanda se lui è timido ha risposto una frase tipo “si nascondono troppe nevrosi dietro alla timidezza”, che io ho interpretato, “la si usa troppo spesso come scusa”. o qualcosa del genere. questa dichiarazione è cangiante almeno quanto la timidezza, perché a memoria non la ricordo proprio per niente, anche se mi colpì per profondità. allora la faccio mia: troppi disagi e agitazioni si nascondono dietro l’asserzione “io sono timida”, troppe fughe davanti alle evidenze. Indi, da oggi, non lo sono più, preferendo, sinceramente, rimanere un tantino nevrotica.

    Palermo
  • Cominciare dalla “fine”

    Mi piace iniziare dalla fine, comincio a leggere i giornali dalle ultime pagine, ho iniziato rapporti d’amore e d’amicizia da litigate allucinanti, cha avrebbero diviso chiunque. È un po’ palermitano, forse, me l’hanno detto: “sei una litigante professionista”, mi hanno mandata in avanscoperta in discussioni e riappacificazioni, perché, quella del confronto concitato, pare sia una modalità sicula. La polemica, prima di diventare una categoria d’intrattenimento, mi divertiva un sacco.

    Palermo, si vocifera, “ha una sua vivacità intellettuale”, io non sono vivace, né tantomeno intellettuale. Si dice spesso, però, “un intellettuale curioso” o un “fine intellettuale” anche se mi piace meno l’aggettivo “fine” di raffinato, “fine” è una parola che fa una vita molto più ricca, pur avendo un riferimento troppo immediato allo spessore e ricordandomi le sottilette. A Palermo quando diciamo fine pensiamo subito a qualcuno che beve l’aperitivo tenendo alzato il mignolo. In realtà la “tipa fine”, o “il tipo fine,” è una tipologia palermitana che io conosco bene e frequento, è colui/lei che possiede quel minimo di soldi e conoscenze che le permettono di darsi delle arie e di muoversi con levità fra luoghi comuni e conoscenze.

    Due giorni fa girovagavo per un centro commerciale e nel mentre ho risposto al telefonino e il mio animo tragico mi ha portata a esclamare a voce alta «è la fine!», a quel punto una signora accanto a me ha rimarcato, «sì, è molto fine», riferendosi a un foulard imitazione di Hermès. Noi palermitani alla parola “fine” affianchiamo il sinonimo raffinatezza, più che l’idea del termine delle cose. Poi magari strilliamo e facciamo “a capelli” se qualcuno ci taglia la strada. Comunque Rosalio, ha un nome assurdo, ed è chiaro che non vuole passare inosservato, ma è un tipo molto fine.

    Palermo
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