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e-mail: rpuglisi@gds.it

Biografia: Roberto Puglisi ha 35 anni, è giornalista professionista e redattore a contratto (leggi precario) del Giornale di Sicilia. Nella squadra di Tgs Studio Stadio con Alessandro Amato e Giovanni Villino, ha al suo attivo due pubblicazioni: Racconti per un giorno solo (ed. Dipingi la pace) e 25 novembre 1985 (ed. Promopress) in cui attraverso interviste con familiari e superstiti è ricostruito l'incidente del Meli che costò la vita a due studenti.

Roberto Puglisi
  • Lo sgabuzzino

    Non so se avete mai avuto uno sgabuzzino. Forse avete avuto un diario. Francamente, e con tutto il rispetto, non è la stessa cosa. Le funzioni simili potrebbero trarre in inganno. Sono luoghi dove lasciare scorrere i pensieri. Eppure, le differenze saltano agli occhi. In un diario ci metti i colori che vuoi. Uno sgabuzzino buio è soltanto nerissimo. Il diario paga la sua vivacità con una discrezione di cartapesta. Chiunque può aprirlo e leggerti dentro. Lo sgabuzzino è omertoso. Non parla. Non ci sono segni sui muri che possano essere interpretati dagli accurati speleologi della tua anima.
    Lo sgabuzzino delle zie era perfetto, una volta superata la paura. C’erano teste di bambole passate, vecchi giochi di società con i pezzi mancanti, rossi cuscini forati pieni di piume, una scala azzurrina che conduceva nel cuore ancora più oscuro di un armadio, un rifugio nel rifugio. E c’era una meravigliosa aria di sfasciume, un odore di passato. C’erano le vecchie foto del bisnonno e il suo busto di marmo, lucido e severo. Quel busto mi ha creato qualche problema di crescita. Osservando la sua rotondità, la sua levigatezza, la solennità dello sguardo scavato nella materia dallo scalpello, mi sono convinto a poco a poco di dovere essere perfetto e immutabile come lui. Solo da poco ho imparato che la nostra vita friabile è fatta di pongo e devi preoccuparti appena appena di trovare la mano giusta perché sia modellata bene. Continua »

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  • La memoria e la retorica

    Il 23 maggio scorso ho visto la sincerità ingenua di molti bambini, all’albero “Falcone”, e la furbizia di troppi grandi. Aveva ragione Giorgio Bocca: “Gli italiani preferiscono l’eroe morto”. Perché quando è vivo rischia di essere additato come un rompiballe o un comunista, dipende dal vento e dalle circostanze. Ho messo fortunatamente le mani su un libro di un grande cronista – si chiama Giommaria Monti – che parla di Giovanni Falcone (soprattutto) e Paolo Borsellino. Lo trovate in edicola a poco più di sei euro (Falcone e Borsellino, la tragedia e le calunnie). È una raccolta preziosa di documenti. Si trova l’esposto al Csm di Orlando, il resoconto esatto della dichiarazione sui cassetti della Procura. Ci sono gli articoli dei fondisti che criticarono Falcone, quando a sinistra videro non certo di buon occhio la sua contiguità col ministro Martelli. Ci sono commenti di giornali di destra e di centro, in cui si imputa a Falcone e De Gennaro il fallimento dell’antimafia. C’è un pezzo in cui il giudice viene accusato di presenzialismo. Ci sono riconoscimenti “doverosi” alla sagacia del giudice Carnevale. E ci sono i verbali del Csm: leggere per credere e registrare i livelli di opposizione contro chi cercava di fare il suo dovere. Probabilmente, Giovanni Falcone non era infallibile e qualcosa l’avrà sbagliata pure lui: sarebbe un torto postumo al suo carisma, al suo impegno e alla sua intelligenza dichiararlo santo. Tuttavia, non è questo il punto. Continua »

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  • Caro disabile

    Caro disabile, ti scrivo… Era l’incipit di una lettera che qualcuno mi ha mostrato. Forse, invece, cominciava così: “Caro portatore di handicap.”. Sicuramente terminava con una firma svolazzante e la richiesta di un voto. Ho rigirato la missiva tra le mani. Nel frattempo quello che ho dentro – cuore, anima, frattaglie, ricordi, parole – avvampava. Capisco che è necessario essere sintetici: la formula “disabile” o quella più lunghetta “portatore di handicap” hanno il pregio della assoluta chiarezza, accompagnato da una discreta brevità, funzionale soprattutto ai tempi convulsi della politica, sotto votazioni. Eppure, certe parole creano il ghetto prima ancora di costruire le sbarre che pietosamente lo conterranno. La gabbia della delicatezza forse taroccata, con la sua asetticità, può diventare un confine invalicabile. Esisti in quanto degno di compassione, di solidale attenzione. Non sei tu, è la tua carrozzina a vibrare nel buio come un faro intermittente. È lei a indicare al venditore professionista di diritti chiamati a torto sogni il profilo del compratore da accattivare nell’urna, con un’offerta calibrata sulle sue esigenze. Avrei – invece – desiderato qualcosa di tremendamente scorretto. Più sterco. Più (malvagia e sincera) umanità. Sarò sbagliato io. Ma preferisco la puzza di una fogna all’assenza di odori. Privilegio il cazzotto in bocca rispetto alla latitanza del contatto. Continua »

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  • L’uomo senza tre dita

    Il primo è stato Vito. La prima faccia. La prima mano che ho stretto. Ero reduce da un’esperienza tremenda. Un corpo a corpo con la scheda elettorale grigia nella cabina. Sembrava facile. Semplice votare il sindaco. Un po’ meno semplice rintracciare il simbolo prescelto, smarrito nella giungla cartacea. Me la sono cavata con un paio di telefonate a “Chi l’ha visto”. Poi ho tentato di ripiegare la maledetta e sono riaffiorati gli immancabili incubi che mi colgono ogni volta che una forma geometrica complessa mi rammenta la faccia ghignante della prof di matematica al Liceo. Insomma, ho appallottolato lo schedone come potevo e mi sono presentato all’impeccabile addetto all’inserimento nell’urna. Il quale ha fatto una faccia schifatissima. Ha riaperto il lenzuolone, sbirciando tranquillamente. Infine, con un colpo di sublime naturalezza, ha rimesso le pieghe della carta al posto giusto, prima di procedere al tuffo nel gorgo elettorale che ha mandato la mia umile scheda tra le braccia delle sue consorelle. Continua »

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  • Ssssst

    Ssssst. Le ultime parole sono ali di falena infrante contro lo sfrigolio del silenzio. La campagna elettorale è finita. Riemergo da un mare di slogan. L’effetto violento è quello della boccata d’aria. Inspirare a pieni polmoni. Mettere su un cd di Battiato (prima, nel caos, non si sarebbe sentito). Prendere gli occhi che avevo lasciato sul comodino. Aprire la porta di casa. Uscire.
    E’ stato un mese affollato di ottici che hanno battuto i palazzi, pianerottolo per pianerottolo, con la loro mercanzia. Vendevano occhiali coloratissimi che mostrano tutto bello. Regalavano occhialini fumè che avvolgono le pupille in una cappa d’ombra. La marca vantata era la stessa per ognuno. Occhiali della fabbrica della verità. Le frasi che li reclamizzavano rivendicavano l’esclusiva.
    Non so voi. Io mi sento un po’ sbattuto nel frullatore delle tonalità cromatiche altrui. Questo silenzio improvviso – questa ghigliottina che taglia le teste e la favella dei candidati – mi riempie la testa di pulsazioni, perfino dolorose. Non ci sono più abituato. Sono uscito stamattina, avvitando il mio vero sguardo al posto giusto, senza un’oncia di collirio. Ho lasciato Franco Battiato a cantare da solo. E ho visto. Continua »

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  • La città invisibile (i vecchi)

    Ho visto il vecchio confondersi con la siepe accanto alla chiesa. Come un animale ferito in cerca di riparo e ombre. Come una delle ragazze nigeriane della Favorita che infilano i soldi nelle scarpe e si mimetizzano nella boscaglia, quando hanno paura. Questo vecchio ha i soldi in banca. Diverse case di proprietà. Tre figli. Aveva una moglie, prima che lei morisse. Non fatevi ingannare dalla cravatta scarlatta, quasi un’invocazione dello splendore di certi Capodanni trascorsi. Guardate gli occhi. Sono occhi strani. Il colore è infossato nelle retrovie. Una lumaca nel guscio. Guardate la bocca. La bocca è una serpentina. Soffia le parole dalla fessura delle labbra, più che parlarle. “Sai, tanti anni di matrimonio non si improvvisano. Ora mi sento solo. I figli hanno la loro vita. Ho cercato una compagna, però è troppo difficile. Sto qui. Aspetto che apra la chiesa per vedere se incontro qualcuno. Mi sento ai margini. Nessuno mi parla. Nessuno mi guarda. E tu?”. E io posso metterti su Rosalio. E posso sperare che una mano ti accarezzi. Anche se non conosce il tuo nome. Continua »

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  • Le elezioni e la verità

    “Racconta quello che vedi”. Così mi disse un grande maestro professionale, uno di quelli che con l’esempio ti spingono a fare il giornalista. Racconta quello che vedi. Ecco risolto il problema della verità.
    Verità è una definizione in disuso. Fa paura. Di solito, la sostituiamo con “realtà”, pensando di essere più umili. E non lo siamo affatto. La realtà è. Significa che quello che vedo è con certezza uguale a ciò che esiste. Una pretesa da dei. La verità è. Significa che quello che vedo è uguale a quello che vedo. Un azzardo da uomini liberi, al massimo.
    La verità nuda e cruda interessa poco. A che serve? Te lo chiedono con aria saputella, la stessa del gatto e della volpe. Sì, a chi giova la verità, se non giova ad alcuna consorteria-confessione-gruppuscolo? Meglio trafficare con gli specchi deformanti, inserire dei filtri coloranti tra l’occhio e le cose. Meglio sciogliere pozioni adulterate nella zuppiera delle parole che si servono ogni giorno al pubblico. La chiamano comunicazione. È nascondimento. La verità senz’altro scopo che quello di raccontarsi rappresenta un’operazione eversiva, una follia, la carica di Don Chischiotte contro i mulini a vento. Magari emoziona. Però risulta sempre sconfitta. Continua »

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  • Finestre

    Certe volte, vado in giro di notte a guardare le finestre accese dei palazzi tra piazza De Gasperi e piazza Europa. Si vede appena una trasparenza di lucciola sospesa nel confine che annuncia la dogana di un’altra vita. Anche le porte sono ingressi, ma raccontano spesso bugie. Se ti aprono una porta, stanne certo, prima si sono spazzolati e pettinati per fare bella figura. Hanno cacciato la polvere dell’odio sotto il tappeto del salotto. Hanno diluito il sangue dell’ultima lite con vigorose passate di cera, perché non si avverta nemmeno l’odore.
    Hanno ripetuto a memoria il copione indicato sul retro dei biscotti del Mulino Bianco per fingere un paio d’ali bianchissime. Hanno spolverato il santino di Maurizio Zamparini benedicente, messo accanto ll’acquasantiera di Santa Rosalia. Hanno preparato un piatto di stigghiole, per mangiarti meglio. La finestra è proprio un’altra cosa. È un varco clandestino. È un flash nel buio. È uno scatto a tradimento che sorprende la verità, nel momento in cui è vera. È una breccia nella trincea di un cuore sconcosciuto, una di quelle trincee che solo l’immaginazione può scavare. Continua »

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  • Ecco i lucchetti

    Lucchetti del ponte Milvio a Roma

    Alla fine, il lucchetto dell’amore è apparso al Foro Italico. Scenario. Villa al mare. Palo verde. Catenaccio rosso cuore. Paolo e Jenny. Davanti a uno scoop del genere, ci sono alcune reazioni a caldo che il sottoscritto vorrebbe freddamente evitare. Indignazione per l’uso improprio degli arredi urbani, con l’aggravante dello spregio di chi vanifica gli sforzi in sede estetica dell’amministrazione che ha perfino circondato la zona con dei birillini colorati assai in voga a Puffolandia. Sarcastica osservazione circa gli usi e costumi dei giovani contemporanei (mi farebbe sentire irrimediabilmente decrepito). Iscrizione all’associazione “Augusti Protettori dei pali del Foro Italico”. In era elettorale sarebbe perfino possibile galoppare con un temerario intervento a un Orlando Day o un Cammarata Party (Amici, parlo a nome dei pali a rischio. Dei pali silenziosi oggi sottoposti a una vera e propria invasione barbarica.) e strappare un accordo di desistenza nell’urna. Un assessorato al palo? Ce ne sono già tanti. E allora mi sono chiesto: cosa si può dire di un lucchetto dell’amore senza scadere nella tiritera? La questione non è semplice. Continua »

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  • Clic

    Ho comprato la penna di G. Era nella vetrina di una cartoleria in centro. L’ho riconosciuta subito. Fusto celeste, cappuccio bianco inamovibile. Poi, la caratteristica che la rende immortale. I quattro tasti che comandano il colore. Clic. Vai col blu. Clic. Scegli il nero. Clic. Il rosso per le firme importanti. Clic. Il verde per cancellare una giornata d’autunno inoltrato. Con G. ho fatto le elementari. Era un tipo che destava curiosità. Gli volevo bene. Per gli occhiali con l’otturatore ruvido, credo. Per la sua pronuncia con la erre moscia (mi chiamava “Vobevto”). Per il suo sguardo serio da padre di famiglia, nonostante fosse appena un bambino. Per la svagatezza che lo rendeva luminosamente impalpabile. Pareva fatto d’acqua e gocce d’oro zecchino. Ma la cosa più strabiliante era la penna da cui non si separava mai. I miei compagni si dannavano per le figurine Panini, imbastendo traffici clandestini e campionati proibitissimi “a battone” o “a letterina”. Io toccavo il cielo con un dito quando il mio geloso amico decideva di concedermi un giro sul quaderno a quadretti con la sua meraviglia dai quattro colori. E ci disegnavo il mondo che volevo. Continua »

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  • La casa di piazza Europa

    Sono tornato, sai. Ho chiesto al portiere di farmi salire un attimo. “Per amarcord” gli ho detto. Lui ha pensato a un calciatore francese. E mi ha spalancato la dogana dei ricordi. Mi sono fermato davanti al campanello. C’è un altro nome, adesso. Ma quel campanello io lo riconosco. Il mio dito rammenta i suoi lineamenti a naso. Le mie orecchie non hanno dimenticato il tintinnio stridulo. Bisognerebbe commissionare uno studio metafisico per sapere quanta anima si lascia sulla superficie di un normale campanello d’appartamento, nel corso di una vita. Quanto pesa l’indice di un ragazzino che torna sudato da una partita in strada? Quanto il pollice in fibrillazione di un adolescente che ha dimenticato le chiavi, dopo una notte d’amore? Se il campanello fosse una capocchia di infinito potrebbe registrate tutto. Ma è troppo minuto e liscio. Le emozioni gli scivolano addosso.
    Sono tornato, dunque. La porta blindata è socchiusa. Non ho nemmeno bisogno di spingerla. Eccomi. Che buffo, sai. Casa mia – cioè casa tua – è come era allora, nonostante il nome diverso sulla targhetta. All’ingresso comincia un lunghissimo tappeto grigio. Un tapis roulant. Un Virgilio impolverato per guidare i passi del ragazzo di una volta, diventato straniero nel cuore del suo stesso cuore. Non andare subito a destra, suggerisce il tappeto. Il gioco dell’oca prevede un salto in cucina. C’è una nebbia fitta da minestrone in corso. Continua »

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  • La gatta di Mondello

    La gatta di Mondello aveva gli occhi azzurri. Sembrava una nuvola con le zampe. Forse è la suggestione ad azzardare metafore e paragoni con l’infinito. Ma io ci vedevo il cielo e il mare annegati in quegli occhi da bestia. Le vibrisse mandavano un profumo di ricci appena pescati e stesi sul molo.
    La gatta di Mondello cacciava con la sicurezza di una sovrana. Sorpassava collinette e corsi d’acqua senza darsi pena eccessiva. La sua gioventù felina e l’olfatto la spingevano verso l’ignoto. E dal buco nero dei suoi viaggi tra spiagge e topi e lupi di mare e barche rovesciate al sole tornava col corpo ammaccato. Con l’anima rilucente di gioia e gagliardia. Poi le si è gonfiata la pancia. È diventata un peso carico di ricordi inutili. Il profumo di ricci ha preso la consistenza marcia di una fogna. Era come una vecchia col girello. Era mia nonna che, nell’ultima estate, rotolava di stanza in stanza, sul suo supporto metallico di rotelle – mezza donna, mezzo cyborg – fino all’ultima casella nel gioco dell’oca delle ombre. Si è distesa sul muretto screpolato la gatta di Mondello. Continua »

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  • Il pipistrello di piazza Europa

    Dice che c’era un pipistrello nerissimo e cattivo, il terrore del quartiere. Dice che aveva già succhiato l’anima di tre cani randagi e presto si sarebbe accanito contro gli esseri umani. Lo disse, un giorno, la signora anziana del piano, mentre rincasava con i sacchetti della spesa. In passato aveva detto altre cose: che gli scarafaggi mutanti della zona erano spie comuniste. E che il macellaio vendeva carne di bambino. Gli altri condomini, nella tromba delle scale o nell’ascensore del mio palazzo, la evitavano, con una scusa divertita. Io avevo otto anni. Così, prestai fede a ogni singola e raccapricciante parola.
    Tornai a casa trafelato: “Papà lo sai.”. Vomitai il resoconto stenografico della paura con gli occhi dilatati. Quando ricordo mio padre lo vedo sempre come un vecchio lupo di mare, con una pipa di radica, seduto in vestaglia su una poltrona del suo studio, manco fosse il capitano Achab. Però senza balene. E mi pare di ricordare che si alzò dalla poltrona con calma da comandante intrepido. Poi sussurrò: “Dobbiamo provvedere noi. Stasera si caccia, ragazzo”. Continua »

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  • Ammuccati puru chissu

    Bisogna avere compassione di un portiere di calcio. Bisogna avere pietà della sua fragilità intrinseca. La leggerezza che gli consente di volare da un palo all’altro provoca, nel rovescio della medaglia, scarsezza di peso e mancanza di superficie opponibile ai colpi del destino. Povero portiere, lieve foglia d’albero. I suoi salti sfidano il cielo. Ma disperatamente ricadono nell’autunno della zolla.
    Il mio amico Lillo mi ha raccontato la storia di un portiere più sfigato degli altri. Non fu mai pubblicata tra sport e cronaca. Peccato. Sarebbe stata più utile di un trattato sociologico sui malanni della categoria. Magari avrebbe favorito la nascita di un sindacato di estremi difensori. Di destra e di sinistra, a seconda del lato preferito dai suoi iscritti per il tuffo. Continua »

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  • La bambina e la farfalla

    Vi ha mai afferrato una matta voglia di volare? Sporgetevi un attimo dal balcone. Laggiù, dieci piani più sotto, brilla un mazzo di fiori gialli in una mattina di primavera. Il colore abbacinante è una voce, un richiamo. Attraversa la pupilla. Lascia un telegramma per conoscenza al cervello. E arriva dritto al cuore. Il cuore cerca di fregarti. Dai, spalanca le ali. Dai, cogli quei fiori. Il cielo è azzurro. Cosa potrà capitarti di male? Apri le ali che non hai, quando arriva il cervello. Ha letto il telegramma e si è precipitato fuori dalla sua camera da letto ancora in camicia da notte, in tempo per urlare: “Che fai? Sei pazzo?”. E solo allora, dopo avere allargato sull’azzurro una consistente porzione di corpo, ti accorgi che il prezzo di un volo verso lo scintillio dei fiori sarebbe troppo alto.
    Quel giorno una bambina decise di inseguire una farfalla, oltre la nostra immaginazione, ma ben dentro la sua fantasia. Telefonata al pomeriggio presto: “Una ragazzina di colore è volata dal balcone. La trovi all’obitorio del Civico. Vedi se riesci a intervistare qualche parente”. È una consuetudine che odio. Perché è necessario fare domande ai congiunti del morto? Cosa potrebbero raccontare di originale? Mica diranno: “Sì, mio figlio Lazzaro in effetti è deceduto, tuttavia siamo fiduciosi. Sa, aspettiamo un suo amico che viene dalla Galilea. Resti con noi, forse ci scappa lo scoop”. Ma del porco – del mio lavoro – non si butta via niente. Continua »

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  • Canto di Natale

    Quasi tutti i barboni di Palermo si chiamano Vincenzo, abbreviato in Vicè. C’è Vicè vogghiufumare di via Archirafi, Vicè del Civico, Vicè di via Briuccia. E c’era una volta Vincenzo, cioè Vicè, che dormiva sulle scale delle Poste di via Roma. Dormiva molto e sognava moltissimo. Quando si svegliava non sapeva più distinguere le immagini d’aria che gli passavano nel cervello da quelle in carne e ossa che gli camminavano davanti. Vicè delle Poste era convinto di essere una donna. Per questo aveva annodato i suoi capelli sporchissimi in una specie di crocchia che, insieme ai lineamenti affilati, gli dava un aspetto da marajà.
    Vicè delle Poste non sopportava dottori e ambulanze. Quando vedeva un camice bianco, scappava. Forse perché l’avevano messo in manicomio da ragazzo e l’avevano curato con l’elettroshock. Così almeno si diceva. Però non bisogna fidarsi troppo, i sussurri della strada sono come erano le immagini nel cervello di Vicè. Impossibile separare la verità dalla fandonia, in una c’è sempre un po’ dell’altra.
    Vicè delle Poste cominciò a stare male. Scatarrava. Sputava per terra chiazze di saliva e di sangue scuro. Ciccio, il medico che collabora con Biagio Conte, cercava di persuaderlo: “Dai, vieni con me in ospedale”. Il barbone si limitava a scuotere la testa. No. Continua »

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  • Vip & Spip

    Cosa fa un vip, quando si trova in branco con i suoi simili? Ovvero, quando pascola con altri vips che vengono interrogati quotidianamente, alla stregua dell’oracolo di Delfi, sull’esistenza di Dio, sulla finanziaria, sul quattroquattrodue, sul triangolo delle Bermuda e sul corretto modo di portare gli slip al giorno d’oggi? Semplice: soffre caninamente. Esemplificazione pratica dell’assunto. Terrazza piena di vips. Un giornalista televisivo importante, una contessa importante, un mangiatore a ufo importante, un politico importante, camerieri importanti, tartine disgustose. Eppure importanti. Arriva il primo vip e si guarda in giro, proprio come un vip. Continua »

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  • 25 novembre 1985

    Oggi è ancora 25 novembre. A piazza Croci c’era il sole quel giorno. Antonio mi disse: “Andiamo a piedi, non aspettiamo l’autobus”. “No, mi scoccia. Anzi sì, ho cambiato idea”. E ci incamminammo all’uscita di scuola. Antonio amava morbosamente Elvis Presley, io ero più su Beethoven. Lui mi spacciava per sua “Be Bop a Lula”, considerandomi digiuno di canzoni pop e faceva pure la mossa mentre cantava. Io facevo lo stesso con la Quinta di Beethoven (“Bob o bo booom. Senti Antò, ti piace? L’ho inventata stamattina in bagno”). Entrambi corteggiavamo cavallerescamente e senza colpi bassi la stessa ragazza. La disfida venne mandata a puttane da un terzo che non aveva letto di Orlando e dei paladini di Francia. Uno pratico, infatti adesso è ricchissimo.
    Dunque, ci incamminammo, quel giorno. Mio padre insegnava al “Meli”, nella mia stessa scuola. Però non potevo tornare con lui perché stava a letto con la broncopolmonite. Dopo dieci minuti di strada, la prima ambulanza sparata verso piazza Croci. La seconda. La terza. Non ci preoccupammo. Non sapevamo. Non indovinammo. Il sole splendeva. Lasciai Antonio al bivio (“Senti Antò ti gusta ‘sto motivetto che ho scritto durante l’ora di religione? Taratattarattattattatataratatatatta! Era la marcia di Radetzky). Arrivai, infine. Sul portone di casa, c’era mio padre e stava entrando in macchina. Pensiero veloce. Mio padre con la broncopolmonite sale in macchina e mi viene a cercare = Mink. Ho fatto davvero tardi e qui finisce a schifio! Continua »

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  • I morti

    Mio padre abita al civico 418 di via Cimitero dei Rotoli. Non pensava di morire, perciò non fece in tempo a comprarsi un loculo. Le zie e la nonna materna gli regalarono un posto, nella tomba di famiglia. Quando lui morì, loro non erano ancora morte.
    Ero al cimitero con Paola, l’altra volta, e non trovavo la casa nuova di mio padre. Mi sono arrabbiato. Ho urlato: “Dove sei? Perché ti nascondi?”. Ho sentito lo strattone di una mano invisibile. Dovevo andare di là. “Vado di là”, ho detto. Ho scoperto il domicilio funebre esatto, col nome e cognome sulla lapide, ma senza il campanello per suonare.
    Aspettavo i morti già la sera che precede il due di novembre. La consuetudine voleva che i trapassati lasciassero, col buio, un soldino luccicante d’oro – di solito una moneta da duecento lire – in qualche angolo nascosto. La notte prima mi sforzavo di non chiudere gli occhi per incontrare i defunti, che, nel tempo dell’infanzia, formavano una squadretta consunta, capitanata da una trisavola con i baffi da maresciallo. La mattina dopo si pregava. Sul comò c’erano le foto di chi non era più. Alla fine delle preghiere, partiva la caccia al tesoro. Drappelli di bambini scatenati scorrazzavano sulle mattonelle della casa delle zie, il due di novembre ormai era stato raggiunto. Continua »

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  • Quelli dello Scipione

    Il sabato pomeriggio andavamo allo Scipione. Tecnicamente trattasi di un campetto di cemento vicino casa mia, senza porte, senza linee regolamentari e a imbuto, con un’estremità più larga dell’altra. I poveracci che attaccavano verso nord non potevano crossare dal fondo, per mancanza di spazio. Il nome era stato preso da un rivenditore della zona. Si chiamava Scipione-Lequaglie. Ecco perché quell’Olimpico di fortuna fu sempre Lo Scipione per tutti. Il nome dava dignità alle imprese sportive. C’era San Siro di Milano, il Comunale di Torino e Lo Scipione di San Lorenzo. Per entrare si applicava la nota regola d’accesso alle cose più belle, cioè la proporzione diretta che intercorre tra la quantità di un desiderio e la difficoltà di realizzarlo. Bisognava seguire una specie di percorso di guerra con scavalcamento finale di cancello. L’imprevisto: ogni tanto usciva da chissà dove un portinaio-custode assai incazzoso che cominciava a tirare pietre prima ancora di parlare. Si atteneva con scrupolo al manuale di comportamento dei Marines in Iraq: intanto spara, poi si vede. Probabilità: allo Scipione la mia generazione ha giocato le sue partite più belle. Io ci sono arrivato per caso. Continua »

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